LANDINI : “SE DENTRO IL GOVERNO NON SI CAPISCE CHE CI SONO PERSONE CHE, PUR LAVORANDO, SONO POVERE E NON RIESCONO AD ARRIVARE ALLA FINE DEL MESE, VUOL DIRE CHE C’È QUALCOSA DI PROFONDO CHE VA CAMBIATO”

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Gianni Cuperlo
Cgil e Uil hanno convocato per il 16 dicembre uno sciopero generale di 8 ore: la protesta è contro la manovra e per denunciare la mancata volontà del governo di coinvolgere le parti sociali in decisioni presentate come un “prendere o lasciare”.
La Cisl si è dissociata e ha indetto a sua volta per il giorno 18 una manifestazione dal titolo significativo: “La responsabilità scende in piazza” (a sottolineare che le confederazioni che manifesteranno due giorni prima compirebbero un’azione in certo modo irresponsabile).
Ora, la rottura dell’unità sindacale è sempre (ma tanto più in un momento come questo) un danno serio.
Perché indebolisce la rappresentanza del mondo del lavoro e, nelle condizioni attuali, rende anche più difficile l’iniziativa (in termini di sponda verso quel mondo) di chi, come noi (intendo il Pd) è parte di una maggioranza ibrida come l’attuale.
Assodato ciò un paio di cose si debbono poter dire.
E la prima suona quasi superflua, ma a scorrere le rassegne stampa degli ultimi giorni non lo è affatto: il diritto a scioperare è scolpito in Costituzione e sono abbastanza sconcertanti e intollerabili le reazioni che accusano una parte del sindacato italiano di sabotaggio o peggio.
Diciamo che una volta tramontata la monarchia non esiste il reato di lesa maestà.
Quindi (salvo sorprese) il 16 lo sciopero ci sarà. Credo giusto che la politica rivendichi una autonomia di giudizio (sul merito della protesta e della manovra arrivo tra poche righe).
Personalmente sono convinto che da sinistra “Mai” ci si possa collocare “contro” il sindacato (questo mestiere lasciamolo ai professionisti del ramo, tenuto conto che qualcuno ce lo abbiamo anche nel cosiddetto campo riformista).
Mi permetto, invece, di segnalare quella che a me pare la questione di fondo (e che stranamente trovo assai poco richiamata nei tanti commenti di queste ore): un vero Patto per la crescita e la ripresa del Paese (per capirci, quello evocato dal premier Draghi dinanzi alla platea della Confindustria) passa oggi più che mai da una riduzione delle disuguaglianze che la crisi e il Covid hanno acuito.
Ma questo obiettivo (eccoci al punto) non lo si persegue “contro” i sindacati.
Nessun governo è in grado di perseguirlo “contro” i sindacati, anche se si tratta di un governo guidato dai migliori o dal “Migliore” in assoluto.
Ecco, a mio parere, la ragione fondamentale per cui si poteva e doveva fare di più per evitare la rottura tra il governo e un pezzo decisivo della rappresentanza del mondo del lavoro.
Giunti al punto dove siamo gli appelli al dialogo sembrano più formali che di sostanza.
Ma insisto, il problema non è l’espressione di un conflitto sociale tra interessi e bisogni diversi (demonizzare o scomunicare il conflitto è un altro esercizio retorico che suona più intonato in bocca alla destra!).
Il tema è se dal tornante complicato di ora (5 milioni di poveri assoluti, una questione salariale che si prolunga da un paio di decenni, l’evasione galoppante, una ripresa dell’inflazione che potrebbe avere ripercussioni sulla qualità del nostro debito, il bisogno di rimettere al centro un patrimonio a lungo dissipato di “beni comuni”), dicevo (cioè scrivevo) se vogliamo uscirne con un paese unito attorno a obiettivi di maggiore equità e giustizia bisogna saper ascoltare la voce di chi protesta.
Quanto al merito: la manovra per il prossimo anno è di segno espansivo (faremo altri 21 miliardi di nuovo debito). Come tutte le cose presenta luci e ombre.
Vediamone alcune: dopo molti anni ci sono notevoli risorse da spendere (sarebbe stato saggio che avendo quel volume di risorse a disposizione si fosse scelto di coinvolgere in modo più convinto e concreto nelle scelte da compiere partiti della maggioranza e forze sociali).
Detto ciò, sugli ammortizzatori la riforma voluta dal ministro Orlando era attesa da anni. L’ultimo accordo sullo smart working nel privato è stato salutato anche dai sindacati come un ottimo risultato. L’anno prossimo parte l’assegno unico per i figli mentre sulle pensioni pare vi sia spazio per estendere l’Ape sociale agli edili.
Quanto alle criticità: i 7 miliardi di sgravi sull’Irpef riguardano i primi tre scaglioni di reddito, ma con una chiara convenienza per il terzo a salire (cioè chi guadagna sino a 20mila euro riceve molto meno di chi ne guadagna il doppio o anche di più). Sul punto conoscete, immagino, le obiezioni di quanti rivendicano la correttezza del ragionamento: non bisogna calcolare il beneficio in cifra assoluta (i 100 euro di risparmio per chi guadagna 20mila euro lordi contro i 600/700 di chi ne guadagna oltre il doppio) perché il calcolo corretto andrebbe fatto sulla percentuale di riduzione in rapporto al reddito.
Non sono un tecnico, ma dico che sarebbe stato utile e soprattutto saggio concentrare la cifra disponibile (i 7 miliardi) sulla fascia di reddito più bassa andando incontro a quanti non sanno come riempire il carrello della spesa.
Questo avrebbe richiesto una precisa volontà del governo che, invece, alle prese con la maggioranza ibrida di cui sopra ha cercato una sorta di mediazione contentando un po’ tutti (sulla carta) ma scontentando (e si capisce la ragione) chi si pone a difesa della parte di popolazione oggi più in sofferenza.
Per quanto vale un’opinione avrei scelto senza riserve la strada dell’aiuto a chi ha di meno, spesso molto di meno, e su questo punto qualificante avrei (da capo del governo) imposto una precisa linea di indirizzo.
Il veto della destra (e non solo) a congelare la riduzione prevista nel prossimo anno per i redditi sopra i 75mila euro ha impedito la possibilità di andare incontro ad alcune critiche dei sindacati (e in quel caso il decisionismo di palazzo Chigi non c’è stato).
Sul fronte del contrasto all’evasione si fa poco o nulla (ne ha ben scritto giorni fa Vincenzo Visco sul Sole 24 Ore).
Mi fermo perché sono andato già troppo lungo.
Riassumendo, la rottura dell’unità sindacale non è un buon segno e la ricucitura, prima avverrà meglio sarà per tutti.
Il governo non dovrebbe reagire allo sciopero alzando il ponte levatoio del “palazzo”: dovrebbe invece cercare di riaprire subito un terreno di confronto e collaborazione.
Chi sciopera lo fa compiendo un atto di libera responsabilità.
Viceversa chi demonizza i lavoratori che si mobilitano ha una visione per lo meno ambigua della democrazia e delle sue regole.
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