L’apericena e la pandemia. È ora di rivoluzionare i comportamenti. Non c’è scelta

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Alfredo Morganti

C’erano fino a pochi giorni fa quelli che bisognava aprire tutto, al massimo chiudere ai cinesi. C’era Zaia che chiedeva di non fare la zona rossa in Veneto, perché non ce n’era bisogno. C’erano quelli che brindavano coi negozianti allo slogan: virus cinese non ti temiamo. Poi c’erano imprenditori, associazioni di commercianti, confederazioni di artigiani, ristoratori che indicavano negli aiuti economici del governo il punto essenziale, altro che gli ospedali, le mascherine, le terapie: serve la crescita sempre, anche quando la malattia si diffonde.

C’erano altresì quelli che, va bene più risorse alla sanità pubblica, ma poi, finita l’epidemia si torni ai regimi convenzionali e al privato sennò il debito pubblico ci crolla indosso. Ah sì, c’erano anche quelli che bastava fare una festa tutti assieme chiusi in qualche discoteca o sala o pizzeria e il coronavirus era sconfitto. Così come c’erano giovani che si sentivano immortali, e dunque perché fermarci? Così pure c’erano quelli che fuggivano dalle zone rosse dicendo che andavano presso il loro domicilio pur risiedendo, lavorando e studiando da anni a Milano.

Ecco questo è stato il modo in cui abbiamo affrontato sono a ieri (e per certi aspetti ancora oggi) l’epidemia. È di poco fa, tuttavia, la notizia che l’OMS giudica quella in corso una vera pandemia. Chissà, quindi, che non sia giunto il momento di lasciar stare le cazzate (della destra, degli apericenisti, di chi va ai mercati rionali a comprare urgentissime scarpe o foulard) per starsene il più possibile in casa cambiando finalmente le nostre abitudini di nomadi selfiesti senza pace. Il capitalismo commerciale e la globalizzazione ci hanno restituito un uomo che solo nel dinamismo assoluto si sente se stesso. Se non c’è una rivoluzione dei comportamenti la strada si farà difficile, se non c’è una rivoluzione culturale sarà dura.

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