di Alfredo Morganti – 30 agosto 2016
Da tre anni ci stanno bombardando mediaticamente sulle magnifiche sorti e progressive del Paese e dell’economia. L’Italia che si sblocca, che riparte, che non la ferma più nessuno. Come se tutto dipendesse da una serie di annunci ben azzeccati, o da un generico clima di fiducia o dalle battute di un premier sempre più fuori posto. I numeri dicono che non è così, che siamo lì, che siamo fermi, che la fiducia diminuisce, che la stagnazione è molto più reale di quanto non ‘narrino’ quelli che invece di governare fanno storytelling. Lo dice l’Istat, lo ripetono i giornali, in primis il Sole 24 Ore, che descrive “in peggioramento anche le aspettative sulla disoccupazione”. Ma come: e il jobs act, e i milioni di posti di lavoro, e i fiumi di retorica versati sull’argomento come sale su una ferita? Che le cose sul lavoro vadano male lo sanno anche a palazzo Chigi: a fronte di miliardi e di miliardi di denaro pubblico messi nel calderone delle imprese, gli effetti sono stati davvero striminziti. Spiega la CGIL che nel 2015 il governo ha speso 6,1 miliardi di euro per circa 100.000 posti di lavoro aggiuntivi (dei quali il 60% a tempo determinato), rispetto agli 800.000 persi con la crisi. Nel 2016 e nel 2017 i costi pubblici, sempre secondo il sindacato, saranno rispettivamente di 8,3 e 7,8 miliardi di euro. La somma fa 22,3. E le aspettative non sono granché, se è vero che al governo adesso pensano di ridurre ancora gli sgravi e riscoprono il tema del cuneo fiscale, rinnegando di fatto il meccanismo che ha prodotto l’accoppiata, appunto, sgravi/jobs act. Certo, tutto molto con le pinze. Scrive il Sole 24 Ore che “la tentazione, risorse permettendo” sarebbe “quella di anticipare, o quanto meno delineare già con la prossima manovra di Bilancio, il taglio strutturale del cuneo, che scatterebbe appieno nel 2018”. ‘Risorse permettendo’, ‘sarebbe’, solo ‘delineare’, ma ‘scatterebbe appieno nel 2018’. Così, una specie di diminutio a base di ipotetiche.
Quel che è certo è che dopo tre anni di fanfaronate, siamo ancora ormeggiati in porto e il rischio non è quello di partire mezzo-mezzo, ma di tornare direttamente in rimessaggio. Ed è ovvio che Renzi, come scrive Massimo Franco sul Corsera, sia costretto a ricalibrare il proprio profilo, tentando di essere meno spaccone. Non può fare altrimenti che tentare di ricucire, laddove un tempo diceva di voler rottamare. È come un ritorno del rimosso, come essere assaliti dal peggior incubo, se è vero che Massimo D’Alema sta partendo in quarta a sostegno del NO referendario, quando pochi mesi fa era dato per spacciato (ma quelli come D’Alema non muoiono mai, soprattutto se gli avversari sono modesti outsider di provincia beneficiati dai tempi più che dai meriti). Oggi più che mai appare evidente come le chiacchiere stiano a zero. Come la stagione degli annunci e dei ‘piani del governo’ sia morta. Poco male se avessimo di fronte politici attenti, intelligenti, responsabili, avvertiti, che hanno preso una toppa ‘comunicativa’ ma sono pronti a ripartire mettendo in campo la politica-politica. Malissimo invece, perché gli ‘annunciatori televisivi’ insediati al governo e nei paraggi oltre l’annuncio non sanno andare, e, peggio, ritengono che dalla volontà di potenza delle loro chiacchiere possa emergere un mondo nuovo, se non la salvezza di tutti. Spiace dirlo, ma non è così. Per quanto il linguaggio abbia un fortissima valenza performativa, da solo non basta a mutare le condizioni di vita di milioni di persone che lottano per avere lavoro, cultura, socialità, solide relazioni umane. Nessun hashtag è utile allo scopo. Né una selva di tweet. Tantomeno le chiacchiere che ci piovono indosso dai media, dai social, da Palazzo Chigi. A profusione e senza alcuna efficacia reale.


