LE MANI, QUESTE SCONOSCIUTE
Sono cresciuto in un ambiente nel quale la manualità era all’ordine del giorno, tra parenti elettricisti, falegnami, idraulici, sarte, fabbri, imbianchini. E poi c’erano le madri, sorelle e nonne, del quotidiano, artefici del quotidiano lavoro invisibile, appunto quello manuale. Erano gli anni ’50. Le sorelle si erano indirizzate all’impiego immediato in vista del matrimonio; io e mio fratello avemmo la possibilità di studiare, pur frequentando l’officina paterna per dare una mano ed eventualmente seguire la professione, tale almeno l’aspirazione segreta di mio Padre. Finite le medie, la mia scelta cadde sull’istituto industriale. Di licei non se ne parlava neppure, l’istituto professionale sarebbe stata l’avviamento al lavoro. L’istituto industriale rappresentava invece una carriera di cinque anni in salita, alludeva al lavoro qualificato, all’esperto, al diploma di perito. Insomma, era una fuga dal lavoro paterno, di cui pur avevo appreso i rudimenti e fatta una gavetta controvoglia. Durante quei cinque anni studiai con naturalità e impegno, con buoni voti e senza mai essere rimandato. Collaboravo sporadicamente con mio padre, mi rifugiavo nei compiti, lo studio era pungolo per dimostrare che potevo fare un’altra cosa. Sfuggire, allentare vincoli. Promosso alla maturità, si presentò una nuova opportunità di fuga dalle professioni potenziali del perito: l’accesso a una carriera universitaria scientifica che non era più riservata ai liceali ma ora aperta anche a chi aveva fatto l’industriale. Mi accorsi della mia aspirazione alla conoscenza e alla ricerca. La professione paterna, dunque, era stata messa da parte, e proseguii fino alla laurea e l’inizio della carriera docente.
A dire il vero, qualche occasione di usare le mani non era mancata. Dipinsi una lunga inferriata sul balcone (mi è sempre piaciuto usare il pennello), montai qualche mensola con tasselli e viti, addirittura uno scaldabagno elettrico a un amico ricercatore, lavoretti minori, sporadici, non degni di nota. Poi accaddero cose non immaginabili dopo che mi trasferii a lavorare nel Sud America. La mia occupazione principale ed ufficiale era la ricerca e lo sviluppo di tecnologie per sostituire le importazioni, quindi studio e docenza; ma allo stesso tempo si presentarono nuove necessità di montaggio di mensole a casa, qualche riparazione di elettricità. Erano bazzecole a cui non prestavo attenzione preso come ero da studi, dalla stesura di qualche articolo, una conferenza. Sapevo fare quei lavoretti senza bisogno di affidarmi a esperti.
Il gran salto si ebbe quando con mia moglie decidemmo di stabilirci in campagna. Lì nacque la necessità di edificare la nostra casa, e poi allestire un vivaio di piante. Ci affidammo inizialmente a un amico, e bisognò dialogare con muratori, comprare i materiali, supervisionare i lavori man mano che procedevano, correggere errori. Finii per assumere impercettibilmente alcuni compiti direttamente. Gli impianti elettrici a me familiari erano sempre stati quelli domestici, ora bisognava imparare l’uso del trifasico per le pompe, i temporizzatori, edificare un serbatoio di riserva, montare l’illuminazione esterna e il sistema di irrigazione. Chiedevo ai fornitori spiegazioni sui montaggi, appresi cose sconosciute domandando e confrontando. Via via apparivano nuove sfide, al punto che mi dedicai per un periodo a tempo completo. Poi riprendevo a studiare e a leggere e ne provavo soddisfazione spirituale, la manualità applicata sfumava all’orizzonte, era in fondo solo una abilità appresa senza una particolare presa di coscienza. Questo pendolo tra attività manuale e intellettuale continua ancora oggi con gli acciacchi dell’età.
Queste riflessioni partono proprio dalla presa di coscienza della manualità, questa seconda pelle che mi appartiene e di cui parlo poco o nulla, interessato come sono a mostrare il lato mentale. Che rappresentano le mani? Le sue realizzazioni sono davvero meno importanti delle conquiste intellettuali? Per addentrarci in questo mistero, cerchiamo di caratterizzarle anche al di là del stringere ed avvitare, del tagliare e del mescolare. Questa seconda pelle che ho scoperto e che mi accompagna silenziosamente da quando ero giovane, trascurata seppur presente, è lì per dirmi qualcosa.
Quando intendiamo fare qualcosa con le nostre mani, abbiamo il pensiero: allungo la mano, prendo il bicchiere, tiro indietro la mano. Cosa ho fatto? Ho teso non solo la mano fisica, ma anche le controparti sottili e una parte del mio Io: la mano fisica li accompagnava docilmente. Dovremmo prestare attenzione alla sensazione di afferrare deliberatamente un oggetto o quando un oggetto incrocia inaspettatamente la nostra mano. Se sviluppassimo bene i due sentimenti, possiamo farci un concetto della differenza tra il mondo sensibile e quello sovrasensibile. Se abbiamo un sentimento vivo di ciò che avviene tra le nostre mani, è significativo osservare quando ciò che diciamo a un altro essere umano si esprime nei gesti delle mani. Cerchiamo di sostenere il nostro discorso, che spesso rischia di diventare troppo astratto, con gesti delle braccia e delle mani.
Non potrebbe esistere la parola se non fosse per il fatto che, nel corso naturale del suo primo sviluppo, il bambino ha innato in sé l’istinto di muovere le braccia e le mani, a volte l’intero corpo.
A volte mi capita di immaginare solo certi movimenti delle mani, avere comunque l’intenzione, magari immaginando come tagliare questa volta la verdura prima di cucinarla. Anche se non le muovo ancora, le mani fisiche rimangono ferme, le controparti sottili si proiettano.
Questa cooperazione della mano con il mondo esterno dovrebbe divenire più cosciente, essere rinvigorita con la vita interiore per cogliere lo spirito in azione. Se guardiamo ciò che una persona realizza con le sue braccia e le sue mani, è occasione per porci domande su come sia la sua vita spirituale cosciente. Tutto il suo andare e venire, tutto quello che fa con le gambe, lo porta spesso a dare poca importanza al lavoro che fa con le mani.
C’è poi tutta una relazione da scoprire tra chi ha mani inesperte e incapaci di eseguire movimenti abili con le dita, e la capacità di godere di un pensiero sottile.
L’acquisizione della postura eretta da bambini è solo il più sorprendente dei fenomeni che si danno per ciascuno di noi nel mondo spaziale. Ogni volta che alziamo una mano avviene un processo simile. Nel nostro Io possiamo contenere solo il pensiero di alzare una mano; questo pensiero deve agire subito sul corpo emozionale, e questo trasferisce la sua attività, che vive in lui come impulso, al corpo vitale. E cosa succede allora? Supponiamo che qualcuno tenga la mano in posizione orizzontale. Adesso gli viene l’idea: voglio alzare la mano un po’ più in alto. L’idea, che si ha seguita dall’atto di alzare la mano, passa alla sua parte emozionale; lì nasce un impulso che passa al corpo vitale. E ora nel corpo vitale accade quanto segue: la mano è dapprima orizzontale; poi il corpo vitale si protende più in alto, poi la mano fisica si muove. La mano fisica segue la controparte vitale e sale più su.
In altre parole, si dovrebbe spiritualizzare il fisico a tal punto che tutto diventi per noi un semplice strumento. Dovremmo arrivare al punto di “guardare” le mani senza vederle. Come sentiamo che un’ascia che prendiamo in mano è qualcosa di esterno, così anche la mano fisica deve essere sentita come qualcosa affine al mondo esterno minerale .
Siamo attraverso l’Io, l’emozionale e il vitale il fattore trainante che orienta la mano come strumento di azione. L’artista spinge al massimo questa concatenazione, ma anche noi possiamo scoprirne i segreti. Basta solo osservare attentamente quando digitiamo un testo al telefono o ci vestiamo o laviamo i piatti.
FILOTEO NICOLINI


