L’outsider che resta sempre se stesso

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Alfredo Morganti

di Alfredo Morganti – 1 luglio 2916

Oggi Antonio Polito (su ‘Sette’) fa una tiratona a Renzi sullo stile. Troppo guascone, troppo sfrontato, troppo pieno di sé. Può andar bene quando si è “un outsider che viene dal nulla e vuole spaccare il mondo, che deve fare la rivoluzione, forte solo delle sue idee e della sua sfrontatezza, e che per questo esibisce come un’arma l’energia fisica e la fame di potere”. Ma non va più bene quando “il potere ce l’hai già, e anzi ce l’hai solo tu”. In questo caso, dice Polito, dovrebbe avvenire la metamorfosi, e “il tuo corpo dovrebbe restituire un’immagine di umiltà, di sacrificio, di dovere”. Insomma, “chi ha il potere dovrebbe pian piano incurvarsi, camminare a passettini brevi, mostrare i segni della fatica, non dell’autocompiacimento sul volto”. Se non sei Clinton od Obama, dice Polito, che sono naturalmente dotati di un portamento da suonatori di sassofono o ballerini hawaiani, “allora è meglio farsi democristiani, e rifugiarsi nella retorica del potere come servizio”.

Il punto è che Renzi non ha mai smesso di essere un outsider, non è mai maturato, perché questa maturazione non appartiene alle sue corde. Resterà sempre un politico di provincia, intriso di quegli umori, che mal si adatta al clima dei grandi Palazzi del potere, verso i quali esprime comunque un senso di estraneità insuperabile. Non è nemmeno un uomo delle periferie (perché le periferie sono ‘centro’ rispetto al clima rilassato della provincia), piuttosto è il ragazzotto che sfida gli uomini di potere, li provoca e si batte per ‘rottamarli’. Un guascone appunto, che non diventerà mai moschettiere. Un uomo così non muta atteggiamenti. Anche se mutano le situazioni, non può farlo, non è nelle sue corde. Interpreta se stesso, lo stesso se stesso e tanto basta. È uno che usa, in fondo, la ‘narrazione’ senza conoscerne il ‘mistero’ profondo, che insegnano in tutte le scuole di scrittura: i personaggi devono subire delle trasformazioni, devono rovesciarsi se vogliono davvero avere in pugno la storia, se vogliono davvero rendere la loro storia credibile e interessante. Senza questi rovesciamenti, meglio se audaci purché giustificabili e motivabili, non c’è interesse, non c’è vicenda, la narrazione muore nella noia e nell’apatia. La storia finisce.

Pensate ora il paradosso. Lui, l’uomo del ‘cambiamento’ (per quanto questa parola nella sua narrazione esprima un meccanismo neutro, sia solo ideologia della performance) non sa cambiare. Racconta la favola che tutto debba mutare, ma salva dal cambiamento proprio se stesso. Ne resta fuori. Ci dice che tutto sta cambiando, che il nuovo domina le vicende umane, ma in questo nuovo lui alla fine non c’è mai. Perché se ne mette al riparo. Perché ripropone sempre, instancabilmente il medesimo stile da outsider. E perché la provincia in fondo ce l’ha cucita indosso, e il suo stesso cursus politico non l’ha aiutato a maturare. La provincia con lo strapaese, le battute, le smargiassate, le spacconate, nonché l’odore e il senso da bar dello sport che a Bruxelles, come a New York o a Berlino, percepiscono lontano un miglio.

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