Lucio Caracciolo: Siamo entrati nell’èra della Bomba come arma di pronto impiego per potenze di prima classe. Le atomiche tornano a quel che furono ottant’anni fa, a Hiroshima e a Nagasaki

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Lucio Caracciolo
Fonte: La Repubblica

Lucio Caracciolo: Siamo entrati nell’èra della Bomba come arma di pronto impiego per potenze di prima classe. Le atomiche tornano a quel che furono ottant’anni fa, a Hiroshima e a Nagasaki

Siamo entrati nell’èra della Bomba come arma di pronto impiego per potenze di prima classe. Le atomiche tornano quel che furono ottant’anni fa, a Hiroshima e a Nagasaki: estremo rimedio per finire il nemico. Ma in contesto drasticamente diverso. La guerra dei dodici giorni fra Israele e Iran con la partecipazione straordinaria degli Stati Uniti non sarà ricordata per i suoi modesti esiti tattici ma per lo sconvolgimento che ha innescato su scala globale. Perché ha sancito la fine della deterrenza nucleare basata sulla mutua distruzione assicurata. Gli arsenali nucleari non assicurano più la vita di chi li possiede, per esempio Israele, o potrebbe presto dotarsene, come l’Iran. Mentre garantiscono di riportare all’età della pietra chi venisse preso di mira da una potenza nucleare convinta che il nemico stia cercando di produrre la Bomba. Paranoia delle guerre preventive di Stati atomici contro presunti aspiranti.

Il regime di non proliferazione formalizzato dal trattato voluto nel 1968 dai detentori della Bomba per impedire che altri se ne dotassero è saltato da tempo. Siamo a quota nove potenze nucleari, con l’Iran sulla soglia e almeno otto variamente latenti. La decisione iraniana di sospendere i rapporti con l’Agenzia internazionale per l’energia atomica conferma che dopo l’attacco aero-missilistico di Israele e Stati Uniti Teheran vuole accelerare la corsa al nucleare militare. Gli oltre 400 chili di uranio arricchito al 60 per cento di cui dispone sono già sufficienti per allestire otto-dieci ordigni atomici, pur di potenza moderata. Disporre di tutto quel che serve a costruire la Bomba in breve tempo riservandosi di allestirla non garantisce più l’Iran. Aut aut: o te la fai o non te la fai. Naturalmente all’israeliana. Regola del segreto scoperto: non affermare né negare, sicché tutti sappiano e fingano di non sapere. Nel giro di qualche anno, rischiamo di scontare una proliferazione tale da ridefinire la gerarchia delle potenze. Segnata dalla diagonale che separa gli attori atomici dai convenzionali. I sovrani dai non sovrani.

Se anche il regime persiano optasse per affidare la sua sicurezza all’Onnipotente, scambiando con gli Stati Uniti la rinuncia all’atomica con l’estinzione delle sanzioni e la riammissione nel club dei perbene – autodefinizione di noi occidentali che non gratifica gli altri umani – su scala globale poco cambierebbe. Come spiega Agnese Rossi nel nuovo numero di Limes, siamo ormai in ambito quantistico, esemplificato dal paradosso del gatto di Schrödinger. I furbetti della latenza sono smascherati. Giappone su tutti, poi Germania, Corea del Sud, Canada, Paesi Bassi, Brasile, Argentina, Taiwan. Presto anche Turchia e Arabia Saudita. Persino in Italia potrebbero riaffiorare sepolte velleità nucleari, espresse nel programma segreto franco-germanico-italiano del 1957, bloccato dagli americani (poi da de Gaulle) e nell’altrettanto riservato scontro al vertice sulla nostra adesione o meno al Trattato di non proliferazione nucleare (Tnp), vinto in extremis dagli ortodossi del convenzionale.

Il salto quantico deriva per paradosso da un evento in sé abominevole ma strategicamente minore: il 7 ottobre. Per colpire l’Iran, Israele ha subito deciso di elevarlo a minaccia mortale. Come rivelato dall’ex capo di Stato maggiore dell’Idf, Aviv Kochavi, a un gruppo di ebrei americani: «Noi non abbiamo percepito Gaza quale minaccia esistenziale. La nostra priorità assoluta era l’Iran». Oggi più di ieri. Netanyahu ha fretta di uscire dal disastro di Gaza, riprendere il negoziato con Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti per poi giocare la scommessa delle elezioni anticipate. Tutte le risorse vanno concentrate per abbattere non il regime ma lo Stato persiano. Per cancellarlo dalla carta geografica, abbellita da Kurdistan, Balucistan e altri frammenti ritagliati dall’implosione della Repubblica Islamica. Evochiamo questo scenario a un analista israeliano. Annuisce. Poi trasalisce: “Dove troveremo un nemico così perfetto, male assoluto che per decenni è stato al gioco della demonizzazione reciproca per legittimarci reciprocamente?”. E cita da un romanzo persiano: “Non andar via. Quando non ci sei non capisco dove mi trovo”.

Tra falchi israeliani e falchi iraniani scatta convergenza di interessi. Il tempo stringe. I vertici di Gerusalemme sanno che i danni inflitti finora alle infrastrutture missilistiche e atomiche iraniane non sono decisivi. Anzi spingono il regime, sulla spinta dell’opinione pubblica radicalizzata dai raid della coppia satanica, a raddoppiare gli sforzi per avvicinare domani, pareggiare dopodomani l’arsenale israeliano, stimato custodire almeno 90 ordigni.

Per invertire la rotta servirà un miracolo: l’Iran apre all’America, che accetta un compromesso per non finire in guerra atomica per conto di Israele. Non per domani.

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