di Alfredo Morganti – 23 giugno 2016
Lo si sente dire spesso. Renzi incarna l’idea (e la pratica) dell’uomo solo al comando. Ha sostituito il ‘noi’ (il senso del collettivo e della comunità) con un ‘io’ atomistico. Le sue scelte istituzionali tendono a verticalizzare il potere e a contrarre le basi della rappresentanza. Si circonda di fedelissimi, e nelle occasioni ‘assembleari’ (tipo direzione del PD) si limita a fare un lungo comizio in streaming. Dialogo è una parola che non ama. Le sue sfide sono sempre personali. Considera il partito una zavorra. Le istituzioni una perdita di tempo. Le mediazioni una rottura di scatole. Ci mette la faccia, ma dovrebbe metterci umiltà e intelligenza, e andrebbe meglio. Quando si punta l’indice su questo stile di leadership, si contesta l’idea che qualcuno possa insediarsi in una ipotetica stanza dei bottoni, e da lì immaginare di governare le immense complessità che ci circondano con un solo gesto, anzi un solo click, spesso dettato da intuito, spess’altro da mera fortuna, altre volte da chissà che.
Insomma, non si critica l’idea che possa esserci un leader. Si critica QUEL TIPO di leader, solipsistico, arrogante, cieco e sordo. Un leader che ha ‘scalato’ il PD, peraltro, e lo ha fatto quasi da ‘esterno’, mettendo i piedi nel piatto di una comunità (per quanto meno solida di una volta) che esisteva comunque ben prima di lui e aveva le sue regole e il suo stile. Così come è salito a Palazzo Chigi a seguito di una specie di congiura di Palazzo. Renzi è il tipo di leader destinato, prima o poi, ad asserragliarsi, a fare uno-contro-tutti, a mettersi in gioco di persona anche dinanzi a questioni pubbliche ben più vaste della sua mera individualità (vedi il referendum costituzionale). Il suo potere non è frutto di una ‘spinta’ popolare, di autorevolezza (pensate all’ironia esplosa dinanzi al suo pessimo inglese), di stima diffusa. No. Il suo potere è quello di chi ha saputo imbroccare il pertugio giusto al momento giusto, sospinto magari da poteri che avrebbero voluto servirsi di lui. Come poi è stato.
Adesso forse bestemmio e faccio un pessimo, ma utile, paragone con Berlinguer (ma avrei potuto dire Togliatti, Pertini, De Gasperi, Moro…). Berlinguer era un leader amato e autorevole, ma non era ‘solo’ al comando. Attorno a lui batteva un cuore collettivo, si stendeva una rete di relazioni e di dialogo, era il centro di un gruppo dirigente solido, preparato, combattivo. Veniva da lontano. Berlinguer era il modo giusto ed efficace, a parere mio, di essere leader, di esprimere una leadership. Ragione ed empatia assieme. Singolarità e collettivo mirabilmente mischiati. Uno e molti. Se dovessi ora descrivere la leadership renziana direi, al contrario, furbizia e antipatia. Renzi è ‘solo’ perché interpreta univocamente il suo rapporto con il mondo che pure tenta di rappresentare, senza mai un vero interscambio, senza mai un ‘vai e dai’ come si dice nel calcio. Berlinguer era ‘solo’, perché sulle sue spalle gravava molta responsabilità, ma non lo era affatto, perché era parte del suo mondo, quasi fuso con esso, con quei milioni di uomini che morirono un po’ anche loro quel lontano, ma vicino, giorno di giugno di molti (moltissimi, a pensarci bene) anni fa.


