Mauro Covacich: “Trieste sta trovando con coerenza una sua strada: la follia!”

per mafalda conti
Gianni Cuperlo
In questi giorni è a Trieste, la sua (e mia) città, per raccontare Svevo a teatro. Una produzione dello Stabile dove Mauro Covacich tiene una lezione sull’autore di Zeno in una scenografia quasi scolastica, nel senso letterale di quelle aule dove alla letteratura e a uno dei miti della città in tanti ci siamo avvicinati. A Trieste, come altrove, si è appena votato e la destra ha appena rivinto. Negli stessi giorni a Trieste sono arrivate troupe e giornalisti, ma non per il voto del comune, si sono precipitati all’ingresso del porto per capire cosa stava succedendo in quell’angolo distante (da Roma sei ore di treno) di solito calmo e quasi incapace di far parlare di sé. E allora la curiosità di capire cosa ne pensa una figura che su quel confine è nato, è cresciuto e lo conosce “da dentro” ha portato a fargli qualche domanda. Bon, è tutto.
“Peccato per Trieste, ma tanto lassù era impresa impossibile!”.
Non so tu, ma io di telefonate così ne ho ricevute diverse. Come se quella città portasse impresso il timbro della sua anomalia. Un po’ come dire che se la sinistra vinceva anche lì, era una mezza rivoluzione. Che poi neanche è vero perché un paio di volte il centrosinistra ha vinto, con Riccardo Illy e Roberto Cosolini, ma onestà impone di dire che è accaduto solo quando l’altra parte si è presentata divisa. Invece quando sono compatti, come in questa tornata, vincono. E accade che Roberto Di Piazza entri nel Guinness dei primati: una volta sindaco di Muggia e per quattro volte sindaco di Trieste. Giorni fa hai commentato i fatti del porto spiegando che al fondo quella anomalia arriva da lontano, sarebbe retaggio imperiale, attenzione verso il benessere del corpo. E al fondo una italianità mai davvero risolta. Trieste, aggiungo io, come un “luogo fuori luogo”. Concetto che Saba aveva trapiantato a modo suo, “Circola in ogni cosa / un’aria strana, un’aria tormentosa”. Partirei da qui: insomma siamo proprio destinati a non trovare una strada di uscita da quella che hai battezzato la “città interiore”?
Ma no, Trieste sta trovando con coerenza una sua strada: la follia! L’unicità di Trieste è il risultato della fusione di due interi universi culturali, quello slavo-continentale che viene da nordest insieme alla bora, ed è il lato algido, prettamente mitteleuropeo della città, che si fonde con l’universo latino-mediterraneo, il quale invece sale da sud-ovest e porta il caldo, ed è il lato marino, levantino della città (che tanta parte ha nel temperamento dei triestini). I triestini sono il risultato di questa fusione. È gente strana, da sempre radicati in un sentimento di non appartenenza. Non appartenevano all’Austria, ma poi l’hanno rimpianta. Non appartenevano agli odiati titini, Trieste è stato l’unico caso di una resistenza antifascista senza comunisti. Non appartenevano all’Italia, per nove anni nel dopoguerra sono stati un protettorato degli alleati. L’identità del triestino è la non appartenenza. Il triestino è un bastian contrario per natura, è scettico, polemico, individualista e quindi istintivamente refrattario a qualsiasi pensiero collettivo, per non dire comunitario. Ora l’abbaglio No vax ha prestato una bandiera a questa indole, non siamo però di fronte a un popolo, ma a un aggregato di atomi solitari. Tieni presente che la poesia che citi si conclude con “la mia vita pensosa e schiva”.
Di Piazza che brinda e si promuove baluardo del centrodestra mentre tutta Italia vede Fabio Tuiach, l’ex pugile di Forza Nuova, inveire contro il green pass assieme ad alcune migliaia di militanti venuti da fuori città per sostenere la “lotta coraggiosa dei portuali di Trieste”. Zeno D’Agostino, il manager che ha rilanciato come nessuno prima lo scalo facendone una realtà strategica che guarda all’Europa e all’Oriente, minaccia di andarsene. La sigla sindacale che promuove la protesta finisce col trovarsi alle prese con una vicenda che sfugge loro di mano sino allo sgombero con idranti e cariche per liberare l’accesso di Tir e merci. È un po’ la sintesi dell’ultima settimana. Ora, detto che trovo quella protesta orfana di argomenti solidi, a colpirmi è stata la reazione di un pezzo della città. Tre o quattro manifestazioni con migliaia di persone, tantissime veramente, e il tutto in una città che vanta il primato per la concentrazione di ricercatori e poli di eccellenza scientifica, dal sincrotrone alla Sissa. Secondo te da dove nasce questa contraddizione? Possiamo dire che esiste una “aristocrazia” della scienza che in tanti anni non è riuscita a mettersi in relazione col sentimento profondo della città, ammesso questo esista?
Non so, ho l’impressione che la scienza e l’anti-scientismo non c’entrino. Ciò che stiamo vedendo mi sembra risponda a un impulso irrazionale. A Trieste anzi le persone sono più istruite che altrove, hanno un grande senso civico e da sempre una forte coscienza critica (il bastian contrario di cui sopra). Però, tra le tante cose del patrimonio ereditario degli Asburgo, c’è anche un certo salutismo ante-litteram (Sissi aveva fatto installare degli anelli tra gli stucchi del Castello di Miramare per fare i suoi esercizi mattutini). Un culto del corpo – a Trieste siamo tutti sportivi –, un edonismo che non c’entra nulla con il superomismo ma che certo ha a che fare con un’idea abbastanza spartana della vita. Salubrità e amore per la natura (i bagni di mare, le passeggiate sul carso) hanno da sempre comportato una forte diffidenza verso i farmaci. Se mia madre ha mal di testa non prende l’analgesico, aspetta che passi da solo. Figurarsi poi se qualcuno le mette la pulce nell’orecchio delle big farma… (mia madre però è un antagonista degli antagonisti e vaccinata tre volte).
Una cosa ancora sul porto vorrei chiedertela. Quando ho visto persone arrivare da ogni parte per sostenere i portuali ho pensato che magari per trovare l’ingresso giusto si erano serviti di Google Maps nel senso che pochi tra i No vax e green pass conoscevano la storia di quei moli e la parabola di una città che col “suo” porto ha sempre avuto un legame particolare. Ho citato D’Agostino perché davvero gli anni recenti hanno trasformato il quadro: dall’oleodotto in partenza passa oggi il novanta per cento del petrolio per Vienna e l’intera fornitura diretta in Baviera. Numeri destinati a risvegliare umori autonomisti mai sepolti e, assieme, interessi delle grandi potenze, compresa la Nato sensibile alla sorte del porto triestino e del gemello a Capodistria perché snodi della tratta tra i Balcani, l’Adriatico e il Nord. Ecco, per giorni tutto questo è rimasto sullo sfondo, come rimosso. Un po’ come se la città non riuscisse mai a trasmettere di sé la natura e la potenzialità vere. In fondo, se leggiamo la storia, siamo la più piccola delle “capitali” e la più grande delle “province”, però poi l’anima che prevale e si racconta è sempre e solo l’essere provincia. È così? E perché, qui lo chiedo allo scrittore, non sappiamo raccontarci “per bene”?
Sulla cosiddetta narrazione hai ragione da vendere. Basta vedere il successo mediatico ottenuto da questo movimento grazie all’immagine del portuale, da sempre una figura mitica a Trieste. I portuali incarnano l’idea del vecchio movimento operaio, fanno luce, sono luccicanti, anche se non votano più a sinistra da un pezzo. Questo però non importa, perché comunque sono un corpo positivo, un po’ come i pompieri. I giovani in questi giorni hanno simpatizzato per il movimento soprattutto grazie alla forza attrattiva dei portuali. Il fatto è che, a proposito di narrazione, conta il punto di vista e noi a Trieste non abbiamo mai smesso di avere il torcicollo: ancora oggi facciamo fatica a guardare a Est, preferiamo essere l’ultimo baluardo dell’occidente in terra nemica (anche in un mondo da trent’anni senza più confini e meno che meno nemici). E finché hai il torcicollo non puoi pretendere la centralità che meriti.
Tanto alla città letteraria in un modo o nell’altro bisogna arrivarci e allora uno spunto possibile è la definizione di Claudio Magris: Trieste come Pietroburgo per Dostoevskij, realtà “astratta e premeditata”, prosperata per impulso di un governo, ma senza uno sviluppo organico, anche per questo luogo di conflitti incomponibili. Credo che solo da noi il dopoguerra trascina polemiche che altrove appaiono reperti di un altro secolo. Resta che in quella chiave hanno trovato spazio culture contrapposte e tormenti dello spirito. C’è chi lo ha descritto come un universo senza una unità di valori. Da Svevo a Weiss, a Saba e Bazlen, la città ha coltivato “grandi narratori di terremoti spirituali che si apprestavano a sconvolgere il mondo”. Bene, la domanda è assai più banale: ti pare possibile che una realtà di tale ricchezza e complessità non abbia mai trovato modo di competere con una proposta o evento che fosse all’altezza del salone del Libro di Torino o del Festival letteratura di Mantova? Davvero siamo davvero solo o soprattutto quella meraviglia di sguardo e passione marinara che è la Barcolana?
Non so se la tua è una provocazione o una distrazione: nel 2011 il sindaco Cosolini mi ha chiesto di trasformare il semplice intrattenimento di “Trieste estate” in una cosa “di cultura”. Ho lavorato sei mesi insieme ad altre due persone. C’erano i fondi, eppure, a pochi mesi dall’inizio, con venti lectures fissate con tanto di date e titoli (personalità come Antonio Damasio, Derek Walcott, Abraham Yehoshua, il premio Nobel della medicina Richard Roberts…), il sindaco per ragioni mai chiarite mi ha proposto di avviare il progetto non più con il comune bensì con il teatro Verdi (che fa lirica) e io ovviamente ho rinunciato all’incarico.
No, non volevo provocarti, ti confesso proprio che non lo sapevo e posso solo immaginare quanto possa essere faticoso combinare in quella che rimane a ogni effetto “provincia” spinte e controspinte di singole istituzioni che a volte trascendono nella “corporazione”, resta che è stata un’occasione preziosa persa. Detto ciò letteratura e storia non riesci a separarle facilmente e la tua “città interiore” lo conferma. Poche settimane fa Tomaso Montanari si è attirato critiche severissime perché ha proposto di sopprimere il Giorno del Ricordo, l’11 di febbraio. La sua tesi è quella nota: l’uso strumentale delle Foibe e dell’esodo da parte della destra. La replica migliore credo sia nel bellissimo saggio di Raoul Pupo, “Adriatico amarissimo”, appena pubblicato da Laterza. La realtà è che la storia del confine orientale è una tragedia che devi conoscere per poter giudicare. Tu da triestino trapiantato altrove quella storia come pensi che dovrebbe essere raccontata a un’Italia (lo dico bonariamente) che troppo spesso confonde ancora “Trento e Trieste” forse perché confusa dalla toponomastica di piazze e strade sparse nella penisola?
Non ho ancora letto il nuovo libro di Pupo di cui apprezzo da sempre il rigore e lo scrupolo dello studioso autentico (intendo non estemporaneo, oggi siamo pieni di studiosi sincronizzati su centenari e altri anniversari). Io sono figlio di un’istriana che mio nonno paterno (suo suocero) ha tormentato a lungo sul perché lei e la sua famiglia fossero scappati. Dal suo punto di vista, di sloveno comunista, gli sembrava assurdo che si potesse scappare dalla Jugoslavia liberata da Tito. Però mia madre ricorda ancora lo strappo (oltre alla perdita, da contadini ricchi hanno perso tutto). Quel sentimento è raccontato benissimo da Materada di Fulvio Tomizza. Dedicargli un giorno forse è troppo solenne, però lo strappo c’è stato. Sulle foibe poi, piccole o grandi che fossero, abbiamo le testimonianze, difficile negarne l’esistenza. Anche a me le celebrazioni del Giorno del Ricordo sembrano pletoriche e piene di una retorica strumentale, ma pazienza. Quanto a Trento e Trieste, è una questione di sussidiari. Adesso poi, che col gps sul telefonino si guardano ancor meno le cartine, temo che la confusione non diminuirà.
Penso alle polemiche sorte su alcune fiction giudicate di parte. Ora, è evidente che “La porta rossa” non alimenta le stesse reazioni di una sceneggiatura su Norma Cossetto, ma è in generale una sensibilità più sviluppata che altrove a farsi sentire, che si tratti di cinema, televisione o letteratura. Ricordo la reazione indignata della mia professoressa di ginnasio all’uscita postuma di “Ernesto”, il romanzo di Saba, e due anni dopo la partecipazione della città alla produzione da parte della Rai di “Un anno di scuola” di Giani Stuparich con la regia di Franco Giraldi. È come se avessimo bisogno della storia, del raccontarla e trasmetterla, e nello stesso tempo temessimo le conseguenze che ci rendono in qualche modo prigionieri di quel passato. Per te chi ha avuto nel tempo la capacità migliore di raccontare la città senza rimanerne prigioniero?
Il Quarantotti Gambini dell’Onda dell’incrociatore e tutta quella parte dell’opera di Magris orientata alle divagazioni saggistiche, Danubio, Microcosmi, il libro su Trieste scritto insieme ad Ara. Questi sono due scrittori che trasmettono Trieste anche senza raccontarla.
Hai ragione, ho letto il libro di Ara e Magris da adulto ed è stato come aprire porte chiuse a lungo. Ecco, ma dopo tanti anni ti sei dato una risposta sul perché lì da noi tutti parlano solo in dialetto? Tutti, dal primario al taxista alla commessa al sindaco? Quel costume sarebbe piaciuto a Tullio De Mauro, meno a Francesco De Sanctis vista la poca considerazione per tutta la letteratura dialettale, per lui la vera letteratura era esclusiva delle “classi più civili” mentre si doveva lasciare “alla spregiata plebe i natii dialetti”. Camilleri sulla sua neo-lingua ha costruito il mondo di Montelusa e Montalbano. Te lo immagini un “canone” letterario che non sia il teatro dialettale (pregevolissimo), ma il tentativo di esportare quel dialetto come mezzo per far capire meglio la natura del posto?
Be’, tu hai citato Ernesto di Umberto Saba, grande libro, scomodissimo, scritto per buona parte in dialetto. Fino a quando avevo vent’anni, diciamo fino alla caduta del Muro di Berlino, il triestino era la lingua franca con cui ci si capiva anche in Istria e in Dalmazia (ora croate), era un dialetto transnazionale, questo credo spieghi il suo uso trasversale. Ci sono lettere di Joyce a Svevo scritte in triestino. Detto questo, io credo di più nello sforzo di Svevo con il “toscano”, ovvero quello di eleggere come propria una lingua acquisita, imparata sui libri di scuola.
Percorso questo sentiero un po’ tortuoso, alla fine pensi anche tu come altri che l’approdo di Basaglia a Trieste sia stato tutto meno che un caso e che se un “teatro” quella rivoluzione doveva avere, non ce ne poteva essere uno più adatto dei padiglioni di San Giovanni e della riviera di Barcola?
Non c’è dubbio che la stranezza di Trieste, la sua toccante assurdità, ha permesso ai malati di mente, finalmente liberati dal manicomio, di dare meno nell’occhio. La parata di Marco Cavallo, con Giuliano Scabia e compagnia bella non avrebbe avuto senso in un’altra città. Ora, con questo fenomeno di isteria collettiva, abbiamo chiuso il cerchio.
Nel 1945 Gaetano Salvemini “osò” ragionare di “italiani e slavi indissolubilmente confusi”, suggerendo per la Venezia Giulia un’autonomia da entrambi i paesi vicini, e in effetti era la natura di confine tra Italia e Iugoslavia a entrare in discussione. Con altri termini Pierpaolo Luzzatto Fegiz ha spiegato perché a Trieste si dovesse abbandonare l’idea di frontiera: “Un confine non dovrebbe essere più considerato un muro invalicabile, fissato definitivamente per il tempo a venire”. Fa riflettere se pensiamo a un’Europa di adesso che non solo confini, ma muri e fili spinati per proteggersi da possibili invasioni di profughi minaccia di ricostruirli. Se pensi all’Ungheria o alla Polonia di oggi hai l’impressione che il ‘900 sia definitivamente sepolto o che stia pericolosamente tornando?
Il nostro secolo mi sembra un po’ più spudorato perché non ha neanche le ideologie dietro cui nascondersi. Le decisioni prese dai nuovi europei sono guidate solo da semplice egoismo, non c’è un disegno dietro. Hanno ottenuto quello che volevano dall’Unione Europea e ora ragionano come a una riunione di condominio, la loro spietatezza è solo questione di particelle e millesimi, per questo fa ancora più impressione.
Vabbè, siamo in fondo e tu sei un intellettuale e uno scrittore: mi dici i tre libri che non si possono non leggere se vuoi capire la città di Svevo, Joyce, Di Piazza e Fabio Tuiach?
Mah, le solite certezze: La coscienza di Zeno, L’onda dell’incrociatore e Microcosmi.
Aggiungo io (fuori dal dialogo), La città interiore di Mauro Covacich.
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3 commenti

Nicola 23 Ottobre 2021 - 0:03

A me sembra un articolo idiota e superficiale. Niente altro da dire.

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Nicola s 23 Ottobre 2021 - 0:04

Articolo insignificante e superficiale

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Truman 27 Ottobre 2021 - 23:23

Un po’ prolisso; si poteva più semplicemente dire: «Se i fatti non si adeguano alla teoria di Covacich, tanto peggio per i fatti». C’è pure un richiamo al grande Hegel.

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