Grande è il corso del fiume della personalizzazione e trascina nella sua impura corrente cani porci detriti animali morti e qualche perla politica.
Vedo i sondaggi: il gradimento di Conte sempre sopra il 60 %, fra i ‘governatori’, Zaia, De Luca e Bonacini uber alles. La stella di Salvini in via di rapido raffreddamento. La personalizzazione avanza a passi da gigante e cambia le dislocazioni. Le nuove costellazioni del firmamento politico sono un prodotto della crisi, della paura e del distanziamento, non di fortunate congiunture e di effimere aspettative psicologiche. Certificate dai fatti, cioè dalla capacità di gestione della turbolenza. E perciò destinate a durare per tutta la fase.
Soprattutto nella crisi la soggettivizzazione della politica è inevitabile. Spinta dal bisogno di dare un volto immediato, personale, al rapporto fiduciario. Il momento in cui la gente guarda in viso il manovratore per scoprirne l’affidabilità, e saggia la consistenza degli apparati di cui dispone: il governo e le strutture istituzionali che operano sul fronte della crisi.
Il caso di Conte (e del suo governo, nel quale vengono in evidenza alcune figure come quelle di Speranza, Gualtieri, Patuanelli) è il più éclatante e paradossale, considerata la campagna di discredito e svillanneggiamento messa in opera dai media e dai loro manovratori. Mai si è vista una così plateale discrasia fra percezione collettiva e rappresentazione mediatica. Evidentemente la realtà che la gente coglie è diversa. Conte sta dando prove veramente considerevoli di premiership: dedizione operativa, capacità di mediazione e compromesso, decisionalità, tenuta nervosa, sensibilità nel rapporto col pubblico.Conte piace e rassicura. Il suo stile gentile e appassionato, così intimamente ‘italiano’, si potrebbe dire ‘temperato’ quanto temprato, anche perfettamente sintonico con la prestazione figurale, ha fatto breccia. E non solo in Italia. E più si fa contumeliosa l’insistenza sulla sua presunta vacuità (e a contorno sull’inefficienza e l’incongruità del governo) più il credito di cui gode si consolida.
Fra i governatori crolla l’immagine di quelli che si sono messi di ‘traverso’ rispetto al governo per puro spirito partigiano e che, anche in virtù di questo atteggiamento fazioso e immodicamente sovra-esposto, sono incappati in performances regionali disastrose alla prova della pandemia. Sono i casi di Fontana e Toti (i più in evidenza) e di altre figure già sbiadite di sè. A contrario Zaia deve la fortuna che lo sta incensando al suo pragmatico e ondivago opportunismo. Ha beccato i consulenti epidemiologici giusti (capaci di brevettare un sistema efficace) e le chance residue di una struttura sanitaria storicamente territorializzata. Del resto la Lega in Veneto è sempre stata un mondo a sè. Bonacini, già beneficiato dalla luna di miele di una fresca rielezione, ha tratto su di sè la solidità del sistema regionale, in una realtà gravemente contaminata anche per il suo stretto rapporto funzionale con la Lombardia. De Luca ha funzionato come un vero deterrente, sorta di teatrale siero autoritativo, in una realtà ad altissimo rischio come quella della densissima megalopoli campana. Emiliano a seguire. L’impressione è che chi ha guadagnato la pole position sull’autodromo della personalizzazione ne trarrà conferma, quali che siano le proposte di liste e partiti. Salvo tornare ad altre preferenze in eventuali elezioni nazionali. I piani sono ormai distinti.
Piaccia o meno, soprattutto dopo tutte le disfunzioni venute a risalto nell’ordinamento regionale dopo la riforma del titolo quinto, i presidenti regionali hanno finito per capitalizzare, nel bene come nel male, il processo di personalizzazione monocratica avviato con la riforma comunale. Oggi sono le personalità più in vista della politica locale, mentre i sindaci sono relegati sullo sfondo. Alle regionali del resto si vota molto di più la persona che la lista che lo sostiene. Non era così fino a un lustro indietro. Il voto personalizzato premiava soprattutto i sindaci mentre le elezioni regionali si svolgevano nel limbo astratto della politica di schieramento.
I ‘governatori’ sono diventati i diretti interlocutori nei rapporti centro-periferia. I partiti con le loro classi politiche allevate sul territorio non esercitano più da tempo questa mediazione, non sono più, data la loro eterea inconsistenza, il ‘mastice’ fra il centro e la periferia. Che era forte e denso nella prima repubblica e ancora avvertibile, per quanto depotenziato, nella seconda Repubblica. Governo centrale e governatori sono ora in un rapporto diretto. In una guerra di posizione che non prevede soluzione. Nè avanzamenti nè arretramenti, nè cambi di trincea. I governatori non sono notabili vecchio stile, imprenditori politici che dal locale aspirano al centro dando corpo alle cordate di partito. Piuttosto sono potenze forti in quanto circoscritte al loro dominio. Feudatari psichici che non possono diventare re, ma non traggono più dal re la loro legittimazione. I partiti territoriali non esistono più. Il territorio è dominio degli shogun come nel Giappone feudale. Mentre i partiti, senza più radici nè notabili mediatori inseriti nella classe dirigente nazionale, sono abbarbicati allo Stato centrale. Mens insana in corpore malformato…
Anche nel gestire questo rapporto Conte è stato intelligente. Pur avocando al centro il massimo di autorità si è ben guardato, malgrado le plateali provocazioni, dal farsi trascinare in un conflitto inter-istituzionale, ed ora è in grado di esibire un accordo concertato che rafforza la posizione del suo governo.
Mentre i media cianciano come comari Conte fa politica. Nel mentre alcuni shogun salgono e altri scendono.


