Niccolò Ciatti, morire tra l’indifferenza

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Marianna Sturba
Fonte: IlSudEst,it
Url fonte: http://ilsudest.it/territorio-menu/39-territorio/10333-2017-08-17-18-44-44.html

di MARIANNA STURBA – 21 agosto 2017

 Carla e Michele Ardengo erano incapaci di provare sentimenti,  figli viziati di una borghesia in procinto di divenire violenta e razzista: loro i protagonisti del romanzo “Gli indifferenti” di Moravia, loro  i possibili genitori dei ragazzi presenti nel St Trop a Lloret de Mar, spettatori silenti della morte di Niccolò Ciatti.

Una furia incontenibile spinge tre ragazzi a prendere a calci e pugni Niccolò e un calcio lo lascia a terra senza sensi.

 Dalle immagini nessuno, fuorché un suo amico, si trova vicino a Niccolò, dai racconti nessuno va in suo aiuto. Qualcosa immobilizza tutti. Qualcosa consegna Niccolò alla morte.

 Si alza lo sdegno di un’intera popolazione, e tutti piangiamo un giovane che non ha trovato aiuto in nessuno. Sentiamo la tristezza ma al contempo la paura di essere soli, in una società di indifferenti.
Quei giovani fermi, inermi, sono gli stessi a cui noi abbiamo insegnato ad assumere stati d’animo neutri, sono i giovani a cui abbiamo detto di pensare a sé e che abbiamo disabituato all’ impegno civile e politico parlando di un’immutabilità delle cose.

 Sono i giovani a cui, attraverso il virtuale, abbiamo insegnato a vivere la vita come un film.
L’indifferenza è il rifiuto di ogni interrogativo morale.

 Avviene quando iniziamo a guardare il mondo attraverso tre diversi livelli del’Io: un Io che agisce, uno che controlla è uno che guarda tutto dall’esterno. Dinanzi a situazioni di emergenze può accadere che sia il terzo io ad analizzare la scena e proprio lui ci suggerirà di non muoverci, di tenere la distanza di sicurezza.

Negli anni ’60, dopo il brutale assassinio di una donna, osservato da 38 astanti che non hanno mosso un dito per aiutarla, alcuni ricercatori hanno teorizzato il Bystander effect, tradotto: Effetto spettatore.
Secondo questa teoria se si assiste ad un atto violento e criminale in un contesto di gruppo,  ciascuno sentirà diluita la propria personale responsabilità, e resterà a guardare cosa faranno gli altri sia per interpretare il rischio effettivo sia per capire se c’è veramente bisogno di esporsi. La probabilità dell’aiuto è inversamente correlata al numero degli spettatori. In altre parole, maggiore è il numero degli spettatori, minore è la probabilità che qualcuno di loro aiuterà. È stato anche dimostrato che tendenzialmente il sentirsi simile, ci spinge ad intervenire, se nell’altro riesco a vedere qualcosa “a me caro” sarò più disponibile ad intervenire.

 Un’apatia sociale, una de responsabilizzazione, una mancanza di empatia, frutto sì di paura, ma anche dei modelli educativi che stiamo perpetrando.

Dagli anni di questa ricerca ad oggi cosa si è fatto per evitare tale abulia emotiva?

 Abbiamo fatto poco perché tendenzialmente ci siamo abituati alla violenza e abbiamo ceduto le armi dell’altruismo alla più sicura indifferenza.

 “Odio gli indifferenti.” diceva Gramsci.

 “L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita.

 Perciò odio gli indifferenti.”

 Queste parole di Gramsci oggi dobbiamo rivalutarle nell’interezza del suo discorso, nel quale richiama anche all’impegno civile, quale base di matura corresponsabilità nelle sorti della società.
Una società di “disimpegnati” non genera attivismo, una società egoista non partorisce  uomini e donne generosi; una socialità malata sempre più virtuale e meno concreta insegna a non avere legami emotivi reali, insegna ad aspettare che l’orrore passi perché si è fatta esperienza che basta un click per smettere di vivere ciò che non si vuole. La vita reale però non è così e chiede agli uomini di tornare ad essere una società coesa che fa, del restare unita, la propria forza, e lascia l’indifferenza agli ignavi.
Come Dante vorremmo ora ricordare a tutti che fine potrebbero avere gli ignavi: questi dannati sono coloro che durante la loro vita non hanno mai agito né nel bene né nel male, senza mai osare avere una idea propria, ma limitandosi ad adeguarsi sempre a quella del più forte. Sono reputati indegni di meritare sia le gioie del Paradiso, sia le pene dell’Inferno, a causa proprio del loro non essersi schierati né a favore del bene, né a favore del male. Sono costretti a girare nudi per l’eternità inseguendo una insegna – che corre velocissima e gira su se stessa – punti e feriti da vespe e mosconi. Il loro sangue, mescolato alle loro lacrime, viene succhiato da fastidiosi vermi.

 Questa immagine non la dedichiamo ai giovani del St Trop, vittime esse stesse della nostra società, ma a noi tutti adulti quando con il nostro esempio insegnano alle generazioni di domani a non schierarsi, a non compromettersi, a non esprimere la propria contrarietà, a non difendere una persona in difficoltà. Questa immagine è per noi, ogni volta che della bellezza dell’animo umano, abbiamo fatto scempio cadendo nel tranello del pensare solo a noi.

 Torniamo ad educare i nostri giovani alla partecipazione, perché capiscano l’incisività degli atti  di ciascuno; educhiamo all’ empatia, perché abbiano dimestichezza con le emozioni e sappiano quindi gestirle; educhiamo all’ iniziativa personale, perché imparino la preziosità del proprio genio creativo, e sappiano quindi esportare tutto questo nel loro quotidiano per avere un mondo che metta meno paura.

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