Numero zero

per Gabriella
Autore originale del testo: Umberto Eco
Fonte: la Repubblica

NUMERO ZERO – di UMBERTO ECO – ed. BOMPIANI

di Umberto Eco, la Repubblica 9 gennaio 2015

Cosa resta degli anni 90 

Tangentopoli, un giornale, la Seconda Repubblica. L’incipit del romanzo “Numero zero”

QUESTA mattina non colava acqua dal rubinetto. Blop blop, due ruttini da neonato, poi più niente. Ho bussato dalla vicina: a casa loro, tutto regolare. Avrà chiuso la manopola centrale, mi ha detto. Io? Non so neppure dove sia, è poco che vivo qui, lo sa, e torno a casa solo alla sera. Mio Dio, ma quando parte per una settimana non chiude acqua e gas? Io no. Bella imprudenza, mi lasci entrare, le faccio vedere. Ha aperto l’armadietto sotto il lavello, ha mosso qualcosa, e l’acqua è arrivata. Vede? Lo aveva chiuso. Mi scusi, sono così distratto. Ah, voialtri single! Exit vicina, che ormai parla inglese anche lei. Nervi a posto. Non esistono i poltergeist, solo nei film. E non è che sia sonnambulo, perché anche da sonnambulo non avrei saputo dell’esistenza di quella manopola, altrimenti l’avrei usata da sveglio, perché la doccia perde e rischio sempre di passar la notte a occhi aperti sentendo tutto il tempo quella goccia, pare di essere a Valldemossa.

Infatti spesso mi risveglio, mi alzo, e vado a chiudere la porta del bagno e quella tra camera da letto e ingresso, per non sentire quel dannato sgocciolio. Non può essere stato, che so, un contatto elettrico (la manopola, come dice la parola stessa, funziona a mano) e nemmeno un topo, che anche se fosse passato di lì non avrebbe avuto la forza di muovere l’aggeggio. È una ruota di ferro all’antica (tutto in questo appartamento risale almeno a cinquant’anni fa), e oltretutto è arrugginita. Dunque ci voleva una mano. Umanoide. E non ho un camino da cui potesse passare lo scimmione della Rue Morgue.

Ragioniamo. Ogni effetto ha la sua causa, almeno dicono. Scartiamo il miracolo, non vedo perché Dio debba preoccuparsi della mia doccia, mica è il mar Rosso. Dunque, a effetto naturale, causa naturale. Ieri sera, prima di coricarmi, ho preso uno Stilnox con un bicchier d’acqua. E dunque l’acqua sino a quel momento c’era ancora. Stamattina non c’era più. Dunque, caro Watson, la manopola è stata chiusa durante la notte — e non da te. Qualcuno, alcuni, erano a casa mia e avevano paura che, più che il rumore che facevano loro (erano felpatissimi), mi svegliasse il preludio della goccia, che dava noia persino a loro e magari si chiedevano come mai non mi destasse. Pertanto, callidissimi, hanno fatto quello che avrebbe fatto anche la mia vicina, hanno chiuso l’acqua.

E poi? I libri sono disposti nel loro disordine normale, potrebbero essere passati i servizi segreti di mezzo mondo sfogliandoli pagina per pagina, e non me ne accorgerei. È inutile che guardi nei cassetti o che apra l’armadio dell’entrata. Se volevano scoprire qualcosa, al giorno d’oggi rimane una sola cosa da fare: frugare nel computer. Magari per non perdere tempo hanno copiato tutto e se ne sono tornati a casa. E appena ora, apri e riapri ogni documento, si saranno accorti che nel computer non c’era niente che potesse interessarli.

Che cosa speravano di trovare? È evidente — voglio dire, non vedo altra spiegazione — che cercavano qualcosa che riguardasse il giornale. Non sono stupidi, avranno pensato che dovrei aver preso appunti su tutto il lavoro che stiamo facendo in redazione — e quindi che, se so qualcosa della faccenda di Braggadocio, dovrei averne scritto da qualche parte. Ora avranno immaginato la verità, che tengo tutto in un dischetto. Naturalmente stanotte avranno visitato anche l’ufficio, e di dischetti miei non ne hanno trovati. Dunque stanno concludendo (ma solo ora) che magari lo tengo in tasca. Imbecilli che non siamo altro, staranno dicendosi, dovevamo frugare nella giacca. Imbecilli? Stronzi. Se erano furbi non finivano a fare un mestiere così sporco.

Adesso ci riproveranno, almeno sino alla lettera rubata ci arrivano, mi fanno assalire per strada da finti borsaioli. Devo dunque sbrigarmi prima che ritentino, spedire il dischetto a un indirizzo fermo posta, e poi vedere quando ritirarlo. Ma che sciocchezze mi passano per la testa, qui c’è già stato un morto e Simei si è reso uccel di bosco. A loro non serve neppure sapere se so, e che cosa so. Per prudenza mi fanno fuori, e la cosa finisce lì. Né posso andare a mettere sui giornali che io di quella faccenda non sapevo nulla, perché solo a dirlo faccio sapere che ne sapevo. Come sono finito in questo garbuglio? Credo che la colpa sia del professor Di Samis e del fatto che sapevo il tedesco.

Perché mi viene in mente Di Samis, una faccenda di quarant’anni fa? È che ho sempre continuato a pensare che è stato per colpa di Di Samis che non mi sono mai laureato e, se sono finito in questo intrigo, è perché non mi sono mai laureato. Del resto Anna mi ha abbandonato dopo due anni di matrimonio perché si era accorta, parole sue, che ero un perdente compulsivo — chissà che cosa le avevo raccontato prima, per farmi bello.

Non mi sono mai laureato per via che sapevo il tedesco. Mia nonna era altoatesina e me lo faceva parlare da piccolo. Sin dal primo anno di università, per mantenermi agli studi, avevo accettato di tradurre libri dal tedesco. A quell’epoca sapere il tedesco era già una professione. Si leggevano e traducevano libri che gli altri non capivano (e che allora erano ritenuti importanti), e si era pagati meglio che per il francese e persino per l’inglese. Oggi penso che succeda la stessa cosa a chi sa il cinese o il russo. In ogni caso o traduci dal tedesco o ti laurei, le due cose insieme non si possono fare. Infatti tradurre vuole dire starsene a casa, al caldo o al fresco, e lavorare in pantofole, oltretutto imparando un sacco di cose. Perché frequentare le lezioni all’università?

Per svogliatezza, mi ero deciso a iscrivermi a un corso di tedesco. Avrei dovuto studiare poco, mi dicevo, tanto so già tutto. Il luminare era all’epoca il professor Di Samis, che si era creato quello che gli studenti chiamavano il suo nido d’aquila in un palazzo barocco fatiscente dove si saliva uno scalone e si arrivava in un grande atrio. Da un lato si apriva l’istituto di Di Samis, dall’altro c’era l’aula magna, come la chiamava pomposamente il professore, insomma un’aula che teneva una cinquantina di posti.

In istituto si poteva entrare solo mettendo le pianelle. All’ingresso ce n’erano abbastanza per gli assistenti e due o tre studenti. Chi restava senza pianelle attendeva il suo turno stando fuori. Tutto era incerato, credo anche i libri alle pareti. Anche la faccia degli assistenti, vecchissimi, che da tempi preistorici aspettavano il loro turno per andare in cattedra.

L’aula aveva una volta altissima e finestre gotiche (non ho mai capito perché in un palazzo barocco) e vetrate verdi. All’ora giusta, e cioè all’ora e quattordici, il professor Di Samis usciva dall’istituto, seguito a un metro dall’assistente anziano, e a due metri da quelli più giovani, sotto la cinquantina. L’assistente anziano gli portava i libri, i giovani il registratore — i registratori ancora alla fine degli anni cinquanta erano enormi, sembravano una Rolls-Royce. Di Samis percorreva i dieci metri che separavano l’istituto dall’aula come se fossero venti: non seguiva una linea retta ma una curva, non so se una parabola o un’ellisse, dicendo ad alta voce “eccoci, eccoci!”, poi entrava nell’aula e si sedeva su una specie di podio scolpito — da attendersi che esordisse con chiamatemi Ismaele.

Dalle vetrate la luce verde rendeva cadaverico il suo volto che sorrideva maligno, mentre gli assistenti attivavano il registratore. Poi incominciava: “Contrariamente a quello che ha detto recentemente il mio valoroso collega professor Bocardo…” e via per due ore. Quella luce verde mi induceva a sonnolenze acquoree, lo dicevano anche gli occhi degli assistenti. Io conoscevo la loro sofferenza. Alla fine delle due ore, mentre noi studenti sciamavamo fuori, il professor Di Samis faceva riavvolgere il nastro, scendeva dal podio, si sedeva democraticamente in prima fila con gli assistenti, e tutti insieme riascoltavano le due ore di lezione, mentre il professore assentiva con soddisfazione a ogni passaggio che gli pareva essenziale. E si noti che il corso era sulla traduzione della Bibbia, nel tedesco di Lutero. Una libidine, dicevano i miei compagni, con lo sguardo basito.

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