Paolo Sylos Labini: le forze della dinamica economica e della dinamica sociale

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Salvatore Biasco
Fonte: Associazione Paolo Sylos Labini

di Salvatore Biasco – 11 luglio 2019

La figura Federico Caffè amava spesso soffermarsi sulle vicende dell’accademia italiana e narrare i tanti episodi che costellavano il mondo dell’economia, quelli che avevano protagonisti Nitti e Pantaloni, o le vicende accademiche di Ricci, e, per i tempi più recenti, quelle di Napoleoni, ecc. Quando la sua ricostruzione del panorama toccava il periodo successivo alla guerra Caffè aveva come una folgorazione: “..E poi venne improvvisa l’esplosione di Sylos…”. Deve essere sostanzialmente stata tale l’apparizione di Sylos sulla scena accademica. Non era neppure giovanissimo (36 anni) quando il suo Oligopolio e progresso tecnico, trasformava i canoni di riferimento di una branca dell’economia. Ma, in più, egli aveva rapidamente guadagnato la scena pubblica con la sua verve, con la sua capacità di incidere nella cultura del tempo, con la capacità di suscitare discussione e trattare gli argomenti più sofisticati in modo da risultare intelligibili a vari livelli.

Quel posto di protagonista nell’accademia e fuori Paolo Sylos Labini lo ha tenuto fino alla fine. È morto il 7 dicembre del 2005. Aveva appena compiuto 85 anni. La sua importanza negli studi economici di questo paese è difficile da sopravvalutare. A lui si deve, col concorso di pochi coetanei, il rinnovamento degli studi di economia in Italia e la congiunzione del pensiero economico italiano con le correnti più avanzate del pensiero internazionale. Eppure Sylos non era interessato al proselitismo, anche se in tanti finivano per richiamarsi a lui. Amava anche moderatamente l’insegnamento da dietro la cattedra, che lo costringeva a seguire binari pedagogici preordinati; amava invece il seminario e la conferenza; gli risultava innaturale sistematizzare idee altrui, non gradiva gli allievi che gli facessero da codazzo, anche intellettuale. Amava produrre idee, ragionare sui fatti e sistemarli dentro uno schema concettualizzato che non prescindesse da storia, situazioni, dalla vita e comportamenti di operatori differenziati, che prima di essere operatori collettivi erano operatori individuali. Amava l’accademia nel suo complesso, dove ha trascorso tutta la sua vita e da cui non ha mai pensato di allontanarsi, anche momentaneamente, per occupare cariche pubbliche, per le quali il prestigio, il ruolo nella società e le sue doti personali tendevano a farne ricorrentemente un naturale candidato. Non ha mai gradito neppure di presiedere la Società Italiana degli Economisti (cui pure tanto ha contribuito). È dall’Accademia che, come studioso, persona di cultura e da ultimo, come Professore Emerito e Accademico dei Lincei, egli ha condotto le battaglie civili in cui è stato impegnato.

2. – La formazione e le tematiche

Sylos aveva studiato all’Università La Sapienza di Roma e si era laureato in Giurisprudenza con tesi in economia (sull’innovazione tecnica e l’organizzazione del lavoro). Si considerava allievo di Alberto Breglia, un economista scomparso prematuramente, a cui riconosceva un debito nella sua formazione. Ma non si era laureato con lui e ne era stato solo assistente volontario. Breglia era un economista difficilmente classificabile nel panorama dell’accademia italiana di allora imbevuta di curve statiche marshalliane e teoria corporativa; un economista che — pur risentendo dell’isolamento in cui erano vissuti gli accademici nostrani — aveva una sua modernità nell’incrociare forme di mercato, distribuzione del reddito ed economia sociale. Sylos si formò da subito in un ambiente internazionale, inaugurando (ma forse qualche suo coetaneo lo aveva già fatto) quella che diventerà una consuetudine dei migliori economisti italiani di perfezionarsi all’estero dopo la laurea. Studiò ad Harvard con una borsa di studio biennale e, con l’intervallo di qualche anno, a Cambridge (G.B). A Harvard fu allievo di Schumpeter, che imprimerà una impronta importante nella visione economica di Sylos (Ernesto Rossi e Gaetano Salvemini la imprimeranno, invece, come figure di intellettuali). In realtà è difficile dire oggi se Sylos abbia scelto Schumpeter in quanto lì lo portava per elezione la visione dell’economia che andava costruendo, o se quella visione debba in origine molto a Schumpeter. Probabilmente l’uno e l’altro. Vi è da dire che Sylos aveva certamente letto i classici (Marx e Smith soprattutto); e li aveva letti alla sua maniera, in modo laico, cercando non verità o ideologie ma termini di riferimento per inquadrare le forze di fondo dell’economia. Schumpeter era, per impostazione e metodologia, assimilabile agli economisti classici per il fuoco che metteva sulle forze di fondo del capitalismo (progresso tecnico, potere/i di mercato, investimento, ecc), sul dinamismo di questo sistema produttivo e sulla sua inerente instabilità ciclica. Quelle spinte di fondo, essenzialmente accumulative, avvengono attraverso relazioni tra variabili reali, che difficilmente toccano la finanza, se non in via derivata. A Schumpeter era estranea la visione di Keynes (la quale mal si inquadrava nel suo schema dinamico), al centro della quale vi erano i comportamenti speculativi (come rapporto tra l’oggi e il futuro), i convincimenti convenzionali degli operatori e le aspettative (che per Schumpeter rimarranno sempre ancorate a una base reale), nonché la rilevanza di questi fattori sulla produzione e l’accumulazione. A volte la vulgata tende a concentrare la “rivoluzione keynesiana” nel “principio della domanda effettiva” (che altrettanto era un modo di vedere l’economia che a Schumpeter sembrava parziale e riduttivo), mentre la vera rivoluzione di Keynes è stata in uno spostamento di ottica nell’analisi del meccanismo di funzionamento di una economia capitalistica, al centro della quale veniva posta Wall Street o la City (o l’equivalente nei sistemi nazionali) e l’intero meccanismo finanziario. A giudicare oggi dall’evoluzione che ha preso il pensiero dominante in economia politica, è un vero peccato che queste due visioni non si siano capite e integrate (se non parzialissimamente in Minsky, anch’egli allievo di Schumpeter al tempo di Sylos, così come allievo a quel tempo era Sweezy). Oggi le strade “ufficiali” sono addirittura divaricanti, con la teoria keynesiana ridotta a visione statica sussunta nell’equilibrio generale e la teoria dell’accumulazione a teoria del sovrappiù che (pur negli indubbi meriti che ha avuto nella critica all’economia politica corrente) rischia anch’essa di rimanere una costruzione fondamentalmente statica. Sylos non sarà mai un antikeynesiano, ma l’ombra della diffidenza di Schumpeter entrerà sempre nella sua lettura di Keynes. Né certamente il suo soggiorno a Cambridge, dove avrà come supervisore Robertson — un antagonista scientifico di Keynes — risulterà in questa direzione un passaggio chiarificatore e lo indurrà a incorporare pienamente Keynes nella sua visione. Ma Sylos è l’autore che ha sfiorato tale sintesi. La lettura che nel tempo risulterà sempre più dominante sarà, tuttavia, quella di Smith, a cui tenderà a ricondurre tutti i fili del suo pensiero. Il suo interesse dominante rimarrà l’economia che si muove generando progresso tecnico e migliorando la produttività, un processo (tutt’altro che lineare) con legami di causa effetto sulla distribuzione del reddito e sulle sollecitazioni che ne ricadono su tutte le variabili del processo economico. È in un certo senso singolare, sebbene sia lo studioso che ha cambiato il modo di studiare le forme di mercato, che l’interesse speculativo e teorico non sia stato strettamente in quel campo, ma che egli si sia solo servito degli esiti dei comportamenti di mercato (dei mercati) come tasselli da inserire (bestemmio se dico “strumentalmente”?) nell’individuazione delle forze di movimento e di distribuzione del reddito, in un contesto più ampio di messa a fuoco delle spinte e controspinte dell’economia. Sulle forme di mercato tornerà infatti, dopo il 1956, solo all’interno di tematiche riflesse nel titolo dei suoi libri: Sindacati, inflazione e produttività, 1972; Le forze dello sviluppo e del declino, 1984; Nuove tecnologie e disoccupazione, 1989; Progresso tecnico e sviluppo ciclico, 1993 (tutti tradotti in inglese), a cui si affiancano tanti altri scritti su temi similari.

3. – Oligopolio e progresso tecnico

Tuttavia, se “..poi venne improvvisa l’esplosione di Sylos..”, il detonatore è essenzialmente Oligopolio e progresso tecnico, pubblicato la prima volta nel 1956 e poi rivisto in occasione delle ripubblicazioni e delle traduzioni che ha avuto nelle più svariate lingue (la prima in inglese nel 1962 con la Harvard University Press). Non ho mai capito da dove lo spunto a lavorare in questa direzione gli sia venuto. Non è un tema schupeteriano in senso proprio, ne è di derivazione diretta dalle sue letture dei classici; è un tema, come detto, solo di appoggio a quelli cui Sylos si mostrerà interessato tutta la vita. È vero che aveva in quegli anni lavorato ad un rapporto sul mercato del petrolio e osservato il ruolo dei costi fissi, ma l’oligopolio che egli tratta è pressoché specifico dei mercati manifatturieri. Ho trovato anni dopo cenni furtivi sull’argomento in un libro di Breglia, ma poiché il libro era la messa a punto delle lezioni fattane da Sylos oltre dieci anni dopo la morte, a scopo di adozione per la didattica, è fondato il sospetto che Sylos abbia semplicemente accennato all’argomento trasponendo le proprie idee. Quale che sia la genesi, Oligopolio e progresso tecnico è una sorta di teoria generale delle forme di mercato. In sé, i mercati, specie quelli manifatturieri, non sono né pienamente monopolistici, né pienamente competitivi. Il grado di competizione dipende dalle barriere all’entrata stabilite dalle indivisibilità tecnologiche, le quali chiedono che almeno un certo break even di produzione sia raggiunto per rendere gli impianti competitivi e l’investimento remunerativo; dipende dall’ampiezza del mercato in relazione al break even richiesto dalla tecnologia più efficiente; dipende dalla elasticità della domanda; dipende da quale discontinuità presentino le tecnologie stesse per passare da quelle meno efficienti a quelle più efficienti. Per quanto questi elementi possano portare il prezzo a fissarsi stabilmente sopra ai costi unitari (marginali e medi) un elemento di competizione esiste sempre tra potenziali entranti in un mercato e coloro che vi sono già insediati. Ma chi è attratto da quel mercato deve scontare sia le dimensioni necessarie a rendere la sua produzione profittevole sia la riduzione di prezzo necessaria ad assorbire la sua offerta, per cui la profittabilità esistente non è quella che vi sarà a ingresso avvenuto. Impianti più piccoli (e presumibilmente meno efficienti) producono minore sacrificio di prezzo, ma avranno per converso costi unitari di break even più alti. Una stabilità di prezzo e di composizione del mercato è quindi possibile anche in condizioni di rendimenti decrescenti. Imprese grandi e piccole possono convivere. Un prezzo superiore ai costi marginali può divenire un prezzo di equilibrio (qui inteso come stabile), pur in condizioni di competizione (potenziale). Tutte eresie, secondo l’ortodossia dell’epoca, ma che diverranno acquisizione della teoria dopo Sylos. La stella polare dell’equilibrio oligopolistico può mantenere i prezzi stabili, se non mutano le condizioni sottostanti, pur in presenza di potere di mercato. Il prezzo è di solito amministrato, ma lo è secondo comportamenti di prudenza imposti dalla concorrenza potenziale. Ma, anche se le condizioni mutassero, occorre distinguere tra i mutamenti continui che sempre avvengono (miglioramento della produttività, aumento dei salari monetari, ecc.) e un cambio di regime (salto tecnologico, entrata di un concorrente “forte”, ecc.). I primi richiedono solo adeguamenti, per i quali serve da orientamento il margine di prezzo sopra i costi che si è stabilito in condizioni di equilibrio e che tende a essere mantenuto dall’impresa leader o dalle imprese leader. I secondi sono più complessi e producono una varietà di esiti. È difficile dare in poche battute la ricchezza di argomenti del libro. Sylos esplora sia la condizione in cui i prodotti siano omogenei sia le differenziazioni prodotte dal marketing e — diremmo oggi — dal marchio, alle quali è da ascrivere il ruolo di barriera che nel primo caso giocano le discontinuità tecnologiche e le indivisibilità. Esplora anche singolarmente la natura di quei mutamenti di regime a cui facevo cenno prima e le conseguenze dinamiche che si producono nel lungo periodo negli esiti del mercato. Dopo Oligopolio e progresso tecnico, una serie di fatti che aleggiavano in modo un pò esoterico nella letteratura e nell’osservazione, hanno trovato come per incanto la loro spiegazione e il loro fondamento concettuale. Così il costo pieno, un comportamento riscontrato empiricamente che mal si conciliava con le teorie microeconomiche dominanti. Così la domanda ad angolo, che acquistava un dignità nell’ambito della stabilità oligopolistica. Senza il lavoro di Sylos, non vi sarebbe stata la teoria dei mercati contendibili. L’interpretazione alla Sylos del comportamento dei mercati oligopolistici finiva per essere la base che dava chiarezza a svariati fenomeni; ad esempio, l’andamento sfavorevole delle ragioni di scambio per i produttori di materie prime, che trovava spiegazione nella settorializzazione dei benefici del progresso tecnico quando a introdurlo sono i settori manifatturieri, dove, a causa della prevalenza di forme oligopolistiche tende a vigere una vischiosità dei prezzi e una certa inelasticità di risposta alle condizioni di domanda, al contrario di ciò che avviene nei settori concorrenziali. O come, altro esempio, l’incomprimibilità strutturale di una componente di inflazione, generata dalla diversa dinamica della produttività settoriale e che opera come fluidificatore del continuo aggiustamento settoriale nell’economia.

4. – Il magistero

Di Sylos mi piace ricordare il suo essere economista vero, con una capacità istintiva, direi innata, di ingerire fatti e teoria contemporaneamente, impastando gli uni e l’altra senza soluzione di continuità per dar luogo ad affreschi che aprivano un’ottica inesplorata nel campo trattato. Oggi ciò che viene chiesto a un economista è di proiettare nella teoria l’ombra di una opzione di comodo (se non ideologica) riflessa nelle ipotesi di partenza e trarre dai risultati idealizzati (in senso weberiano) della teoria un criterio per dedurre un giudizio normativo sui fatti correnti. L’ingrediente è la matematica “per costruire il modello” e l’econometria per “testarlo” (brutto termine entrato nell’uso che da solo indica una soggezione culturale). Sylos era l’esatto contrario: aveva urgenza di inquadrare i temi di rilevanza centrale per l’economia nella loro dimensione reale e nelle loro sfaccettature. Scavava nei fatti, nella teoria nelle sequenze causali. Sapeva che l’armamentario dell’economista è sterile senza una presa nelle scienze sociali e nella storia; senza una cultura giuridica; senza la dovuta attenzione alle istituzioni e alle loro evoluzioni. Questo non gli impediva di giungere alla semplificazione (o all’astrazione) che gli consentiva di isolare il punto, ma cio’ non doveva offuscare nessuna di quelle dimensioni. Apprezzava l’impiego di matematica e statistica se di ausilio a questo armamentario e a questo approccio metodologico, ma non se strumento per esercizi di astrazione fini a sé stessi e per conclusioni artificiali. Oligopolio e progresso tecnico non deve trarre in inganno; Sylos è stato essenzialmente un macroeconomista, che ha presente il quadro microeconomico sottostante. Non si tratta delle moderne “microfondazioni”; è qualcosa di più. Ho detto che il suo interesse si è indirizzato alle modalità in cui le interconnessioni tra le variabili e tra decisioni dei singoli attori generano la dinamica dell’economia (soprattutto della produzione e della produttività), il ciclo la distribuzione del reddito. Dentro l’interconnessione tra macrovariabili è possibile, però, cogliere in azione un pullulare di soggetti che generano quotidianamente e singolarmente scambio, produzione, consumo o altro; il comporsi della loro attività; la pluralità di motivazioni e impulsi che prendono forma a livello disaggregato; il formicolare di reazioni diverse di soggetti tra i più disparati agli eventi di cui ciascuno è partecipe, ma che vive come eventi esterni che lo condizionano. Attraverso la sua analisi trovano sistemazione e spiegazione le informazioni più aneddotiche e i fatti più dispersi della vita sociale. L’operare della politica e delle istituzioni è sempre presente; ogni processo ha poi ha una prospettiva storica in cui viene inquadrato: i percorsi precedenti proiettano i loro condizionamenti sugli sviluppi successivi. Non a caso egli vorrà fotografare questo caleidoscopio di attori nella posizione che questi occupano nella società e nella scala sociale (con una incursione in campo apparentemente extra economico) nel libro Saggio sulle classi sociali (1974). A parte la voluta cesura culturale che il saggio rappresenta rispetto a alcuni luoghi comuni agitati soprattutto nel versante politico della sinistra, di cui parlerò più avanti, nel libro si può cogliere una lettura dei modi in cui le coalizioni si formano nella società (fra l’altro, variabili per singole questioni) e delle condizioni che portano il potere decisionale a essere permeabile alle istanze di quella la cui forza finisce per essere dominante nel “tiro alla fune” (è una sua espressione). Sylos è scienziato sociale in senso pieno e, infatti farà nel corso del tempo, non solo con l’insegnamento metodologico dei suoi scritti e del suo approccio istituzionalista, ma anche con manifesti, le sue battaglie per riaffermare un’idea dell’economia come scienza sociale e combattere gli indirizzi metodologici dominanti che tendono a farne una scienza assiomatica e asettica, o una sorta di ramo dell’ingegneria. Non riuscirà mai a capire l’utilità di un indirizzo che ricerchi la posizione statica di equilibrio economico generale di tutti i mercati (in condizioni peculiarissime di concorrenza perfetta, piena flessibilità, massimizzazione dell’utilità e perfetta conoscenza e informazione) o che la presupponga. Ne riuscirà a accettare le quantità di forzature necessarie per utilizzare la curva a U o la funzione aggregata di produzione (che metterà severamente in discussione non sulla base di una ripetizione delle critiche di teoria del valore, ma di una rielaborazione basata sui suoi interessi, oligopolio e tecnologie, nonché sul merito degli argomenti statistici).

5. – Il modello dell’economia italiana e l’approccio quantitativo

Devo dire che io ho trovato non assonante con la sua impostazione metodologica l’atteggiamento che ha avuto verso l’econometria, che è stato di sostanziale accoglimento. Certo una persona con la sua libertà di pensiero non avrebbe mai posto un’ipotesi interpretativa al servizio degli esiti di una prova econometrica, ma viceversa. Mi immagino le volte in cui la serie sia stata cambiata o la stima rifatta se i risultati fossero stati in contrasto con la sua percezione della realtà (ma non ho testimonianze in proposito). Tuttavia, a volte ha dato la sensazione di credere in coefficienti o in gap temporali di risposta espressi dalle sue stime come se quei coefficienti non esprimessero poi regolarità di rapporto nel tempo tra due o più variabili. Regolarità non riferite semplicemente a relazioni logiche nella catena causale, ma quantitativamente identificabili. Sicuramente talvolta quei coefficienti hanno costituito più che una variabile di controllo. Nella famosa polemica tra Keynes e Tinbergen degli anni ‘40 temo che avrebbe dato più ragione a quest’ultimo. Eppure egli apriva ogni anno le sue lezioni mettendo in guardia gli studenti contro le “leggi” dell’economia e citando un episodio di vita personale degli anni ‘50 quando gli era capitato di qualificarsi come economista presso un responsabile dei pompieri (non ricordo di quale città, Lecce?). L’interlocutore ad un certo punto come captatio benevolentiae, aveva esclamato: “Eh … le leggi dell’economia! Che tempi! … nessuno le rispetta più!” E ogni volta si divertiva a rilevare che forse le “leggi” dell’economia, se nessuno le rispetta, non esistono. Sylos aveva affinato gli strumenti in questo campo costruendo forse il primo modello dell’economia italiana a metà degli anni ‘60 (poi pubblicato nel 1967). Si toglierebbe qualcosa a quell’impresa se non fosse messa nel contesto dell’epoca, che ne faceva un’impresa eroica e artigianale per un singolo studioso. Le tecniche econometriche erano meno sviluppate e sofisticate di quelle odierne. Certamente non esistevano software econometrici, ma neppure banche dati già pronte da utilizzare all’occorrenza; occorreva costruirsele. Oggi un test econometrico o la sima di un’equazione nella parte di lavoro bruto potrebbe essere affidato da uno studioso alla sua segretaria, alla quale sia lasciato un appunto sulle serie da usare, il disco di programma da inserire nel lettore del computer e la sequenza di tasti da pigiare; allora richiedeva una organizzazione complessa e in un certo senso audace. Sylos aveva una urgenza di porre in forma nitida e didatticamente fruibile (non solo agli studenti, ma anche agli studiosi) tutte le relazioni causa-effetto e le interconnessioni che aveva individuato per l’economia italiana (distinta per settori e forme di mercato prevalenti). Voleva mostrare come spinte e controspinte finissero per prevalere prima l’una e poi l’altra con spirali che a un certo punto si spezzavano per azione di fenomeni collaterali che esse stesse generavano. Per questa operazione “pedagogica” aveva bisogno di parametri quantitativi tratti dall’interpolazione di serie storiche prolungate, le quali ultime erano talvolta esse stesse frutto di costruzioni econometriche. L’operazione di porre su basi di riferimento solide la discussione sull’economia italiana sicuramente riuscì e il dibattito di politica economia ruotò attorno alle sue idee sul modo di funzionamento macroeconomico del Paese; e questo non sarebbe stato possibile senza la forza comunicativa dei numeri. Tuttavia, mi sono sempre chiesto con quali trasposizioni teoriche egli potesse sentirsi a suo agio con un’idea di meccanicismo economico che ciò emanava e di riduzione dell’economia a un grande congegno idraulico, che era quanto di più estraneo vi fosse alla sua percezione dell’economia. Avrei voluto discutere questo con Sylos e alcune volte vi ho tentato, per quanto fosse possibile discutere con lui. Era troppo esuberante; la sua mente viaggiava a 1.000 all’ora e dopo poche battute cominciava a esternare tutto ciò che nella mente gli si era messo in moto a partire dal piccolo input, per ritornare sul fuoco varie volte e abbandonarlo altrettante, ma comunque lasciando poco spazio all’interlocutore. (Sylos era affascinante anche per questo suo vagare di connessione in connessione, ognuna delle quali era imprevedibile, ma apriva possibilità di insospettate di inquadramento degli argomenti che toccava). Per polemizzare con lui, e trovare il modo di argomentare adeguatamente nel merito, era però meglio scrivergli. Selezionando nei suoi argomenti trovo, tuttavia, le sue risposte ai miei mugugni. In primo luogo, c’è econometria e econometria e quella da scartare è solo quella che non parte dalla teoria e dalla concettualizzazione e pretende di trovare risposte analitiche nei risultati quantitativi. In secondo luogo, i processi sono storicamente condizionati e il loro inquadramento quantitativo può (e deve) mettere in luce la relatività storica degli stessi, giustificarla e attenersi strettamente al periodo di validità delle relazioni. (E semmai mostrare le differenze con periodi caratterizzati da contesti istituzionali diversi). Gli ho sentito poi usare anche un terzo argomento in varie circostanze, che spero di riportare correttamente. Vi sono fenomeni fisici che se analizzati da vicino mostrano il movimento caotico (e comunque asistematico) delle particelle. Il gas che scorre lungo un tubo ha questa natura; ma quando poi sgorga il flusso composto da quelle particelle ha una regolarità insospettabile. Econometria o no, dove Sylos era insuperabile è nella lettura dei fatti e quindi anche nel modo di interrogare e far parlare l’evidenza statistica “elementare” — talvolta tratta da fonti inconsuete o cercata in direzioni inconsuete dove il suo istinto gli consigliava di guardare. Talvolta ricostruita per incroci, perché inesistente sulla base dell’uso che intendeva farne. Quell’evidenza diventava tutt’uno con il suo legare fenomeni diversi, mostrare rotture e continuità, col suo procedere per indizi e per tappe argomentative fino alla conclusione, dove tutto trovava l’incastro giusto. Mai un utilizzo descrittivo ma sempre un modo per mettere in luce certe sequenze di ragionamento economico e interpretativo, le congetture che sorgevano sulle connessioni tra fenomeni, oppure la peculiarità dei processi in esame. Lì c’era l’estrinsecarsi — me lo si lasci dire — “dell’economista con l’istinto innato dell’economista”.

6. – Smith e Sraffa

Sylos era per natura portato a costruire l’economia più che a soffermarsi su problemi di critica al pensiero altrui e all’economia dominante se non per quel tanto che gli servisse a marcare i riferimenti. È fuori dubbio che Smith fosse per lui una fonte di ispirazione e insegnamento ricorrente, anche se la scoperta che le sue radici fossero prevalentemente in Smith è avvenuta relativamente tardi. Nel suo libro Torniamo ai classici, 2005, l’ultimo scritto in una vena teorica, riprende e aggiorna tutti i suoi cavalli di battaglia e ne mostra costantemente il filo con il pensiero dei classici, ma di Smith in primo luogo. L’influenza di Marx, letto con categorie schumpeteriane è più forte di quanto egli sia disposto ad ammettere, ma di questa parlerò poi. Col tempo arriverà alla conclusione che le pure forze economiche danno una visione parziale della realtà sociale e dei conflitti che la percorrono. Altre forze sono parte rilevante di quella realtà e agiscono in piena autonomia. Negli ultimissimi anni, il giudizio scientifico sarà sopraffatto da una vera antipatia per l’uomo Marx, capace di consigliare doppiezza ai socialdemocratici tedeschi e di mettere incinta la cameriera. Personalmente non saprei classificare, invece, i suoi rapporti con l’opera di Sraffa (intendo lo Sraffa di Produzione di merci a mezzo di merci; non gli articoli degli anni ‘20). Aveva una sorta di rispetto reverenziale e intellettuale per l’uomo e aveva incoraggiato i suoi allievi a studiarne l’opera e a perfezionarsi a Cambridge. Quello tra gli allievi che gli sarà più vicino, Alessandro Roncaglia, diventerà un eminente cultore della materia, riconosciuto su scala internazionale. Non ricordo, tuttavia un solo punto in cui Sylos utilizzi effettivamente l’impostazione di Sraffa, salvo per ribadire che il sovrappiù prodotto è la base dell’accumulazione e ha una distribuzione soggetta ai rapporti di forza e altri fatti collaterali dell’economia. Curerà — è vero — la raccolta di saggi (1973) che egli stesso aveva incoraggiato i suoi allievi a produrre sull’argomento o su argomenti limitrofi, ma temo che fosse per omaggio all’autore e all’importanza del suo lavoro di critica all’economia marginalistica più che per vera passione diretta per l’argomento. E temo anche che il pensiero di Sraffa si trasfigurasse in Sylos per ricomporsi nel pensiero sylosiano.

7. – La politica economica

Il ritratto della personalità di Sylos sarebbe incompleto se l’accento si limitasse ai suoi contributi analitici e alla sua impostazione teorica in economia. Egli è stato anche teorico del sottosviluppo, partecipe del dibattito di politica economica, protagonista e punto di riferimento nel dibattito culturale. In più ha profuso energie e impegno nella vita civile. Entrare nei temi della politica economica è stata in parte una proiezione della sua attività speculativa. Sylos aveva da giovane contribuito al piano del lavoro della Cgil e aveva condotto un’inchiesta sul mercato del petrolio. Quando, al formarsi dei primi governi di centro sinistra, nel 1963, la programmazione diventa la parola d’ordine della politica economica egli partecipa a entusiasmi e speranze suscitate dal nuovo corso e scrive con l’amico Giorgio Fuà il libro Idee per la programmazione (1963), che, seguendo quel misto di macro e micro economia che caratterizza i due autori, è di fatto uno studio sulle compatibilità macroeconomiche e sull’insieme degli interventi (oggi diremmo “strutturali”) che gli autori giudicavano necessari per tenere elevata la crescita dell’Italia. Egli farà parte del Comitato per la programmazione presso il Ministero del Bilancio (1965), ma si dimetterà quando constaterà che come sottosegretario al Governo (presieduto da Moro) è stato nominato l’on Lima. Sylos prenderà costantemente posizione su temi e eventi dell’economia italiana. Interverrà con un saggio sul punto unico della scala mobile del 1977 (pronunciandosi a favore della sua abrogazione) e sulla tassazione di titoli di Stato del 1989 sulla quale si dichiarerà contrario. Sarà sempre a favore della politica dei redditi, che sosterrà anche attraverso i suoi lavori analitici sulla distribuzione del reddito, l’inflazione e la produttività. Metterà in luce che ci sono circostanze in cui il trade off tra salari e occupazione non è convalidato. Curerà un manifesto promemoria sulle priorità nazionali destinato al primo governo Prodi, nel quale è dominante l’attenzione alle politiche occupazionali (per le quali chiede flessibilità e regolazione) e la preoccupazione per la sostenibilità degli schemi in essere di previdenza pubblica. Le ragioni dei ritardi del Sud saranno sempre presenti nella sua analisi dei problemi strutturali dell’economia. Egli, a ragione considerato un meridionalista, ha vissuto il tema con la passione di chi si considerava figlio del Sud (anche se era nato a Roma, ma di famiglia proveniente da Bitonto nella cui ascendenza diretta da parte di madre vi era lo zio Giustino Fortunato). Manterrà sul tema un’analisi sempre orientata alle indicazioni di policy. Il suo interesse per l’articolazione del paese e per i temi strutturali non poteva non rivolgersi ai distretti industriali, forse l’ultima sua incursione nel campo della politica economica, in cui egli perora il riconoscimento giuridico del distretto in quanto tale per procedere, attraverso questo, a semplificare gli adempimenti amministrativi, porre su base diverse l’imposizione fiscale, puntare alla gestione consortile dei servizi e dar luogo, con l’aiuto pubblico, a investimenti collettivi in ricerca. Forse i distretti non erano più gli stessi da quando Sylos, anni addietro, aveva cominciato a rivolgere la sua riflessione all’argomento, essendo diminuita l’importanza dei fattori territoriali o monosettoriali, cui egli faceva riferimento, ed essendo ormai le reti sempre più riferibili a forme flessibili di sistemi d’impresa, piattaforme produttive, raggruppamenti per filiera e rapporti contrattuali inediti di svariata natura; per di più reti inserite in sistemi produttivi globali. Tuttavia, le sue proposte, avanzate con un gruppo di lavoro che Sylos aveva animato, conservavano carica innovativa, e trovavano eco nell’ultima finanziaria approvata dal governo di centro destra (sebbene, Sylos disconoscesse in due articoli sul Il Sole 24 Ore (2005), ultimi tra i suoi interventi di politica economica, l’aderenza a quelle proposte).

8. – La presenza nel dibattito culturale

Sylos è anche un pezzo della cultura italiana del dopoguerra. Non è solo un economista, né solo uno scienziato sociale, ma anche persona presente nel dibattito culturale, un intellettuale a tutto tondo. Dall’alto del suo prestigio e dirittura morale, sarà anche coscienza critica del paese. “Presente nel dibattito culturale” è riduttivo perché alcuni suoi interventi sono stati una sferzata che ha sfidato e modificato i convincimenti culturali della sinistra del suo tempo. Il clima del dopoguerra era di forte contrapposizione ideologica tra due “chiese” politiche e culturali. Sylos apparteneva alla sinistra, ma con una visione riformista, convinto dell’insostituibilità del capitalismo e imbevuto di una impostazione positivistica, allora inconsueta in quello schieramento politico che guardava in prevalenza “oltre” il capitalismo e era imbevuto di cultura idealistica. Marx era sicuramente un autore di ispirazione e di riferimento per Sylos. Ma un Marx molto diverso da quello fatto proprio dai marxisti di allora (e marxista era l’intero Partito Comunista): non vi erano verità da cogliere e affermare dall’opera di questo autore. In più, a Sylos era estraneo l’aspetto filosofico (alienazione e quant’altro), reinterpretava la lotta di classe come fisiologico conflitto sociale; alla teoria del valore era scarsamente interessato. Marx era per Sylos uno scienziato sociale, le cui analisi del capitalismo e delle leggi di movimento davano sicuramente una chiave di lettura e di inquadramento dei processi di lungo periodo dell’economia e della stratificazione sociale che li accompagnava, ma in molti punti andavano corrette, relativizzate storicamente, integrate con visioni più moderne tratte dal senno di poi. I saggi raccolti poi nel suo libro Economie capitalistiche e pianificate, (1960), furono una scossa per la cultura di sinistra dell’epoca (e potrebbero far riferire anche al campo culturale quella frase di Caffè: “.. e poi venne l’esplosione di Sylos”). Si poteva essere in un certo senso ammiratori di Marx senza essere marxisti politici e mantenendo una freddezza (e freschezza) analitica utile a inquadrare vari aspetti delle relazioni economiche contemporanee. Per tanti giovani della mia generazione quel libro fu una rivelazione illuminate che avrebbe segnato il corso della loro storia culturale. Lo stesso Oligopolio e progresso tecnico, letto in chiave politico-culturale, fu una sconfessione di quelle analisi (dominanti a sinistra) condotte in termini di “grandi monopoli” e dell’ombra stagnazionistica e regressiva che essi proiettavano nell’economia. La stessa miccia fu accesa anni dopo col saggio citato sulle classi sociali (1974), in piena ripresa di ideologismo nel nome della classe operaia, vissuta come classe generale interprete dei destini della società. Sylos, dati alla mano, mostrò quanto si fosse lontani da una evoluzione verso una crescente proletarizzazione, la quale non solo non aveva basi nel numero di coloro che vivevano una “condizione operaia” o vi potevano essere assimilati, ma neppure nell’“immiserimento” di tale classe. La società, invece — tutt’altro che dicotomica — diventava sempre più connotata da un corpo maggioritario e variegato di “ceto medio”, con ciò che questa evoluzione portava con sé in termini di orientamenti politici e culturali, nonché di dinamiche sociali. All’interno di quel ventaglio rappresentato dal ceto medio, sezioni differenziate di piccola borghesia finivano poi per inserirsi in modo parassitario in tutti i gangli della macchina amministrativa e della vita sociale e erano in grado di piegare a proprio vantaggio — utilizzando i meccanismi della democrazia rappresentativa e della mediazione sociale — conquiste civili e economiche cui non avevano contribuito. Ritornerà sul tema e lo aggiornerà in Le classi sociali negli anni ‘80 (1987).

9. – L’impegno civile

Preso dalla molteplicità dei suoi impegni culturali, scientifici e di scrittura, non ho mai capito dove Sylos trovasse il tempo per portare a fondo, senza mollare la presa, le sue battaglie civili, così dispendiose di energie e di emozioni. Eppure, non sembrava una persona inseguita dall’ossessione del tempo. Poteva ricevere un allievo giovane tenendolo ore, ignorando che si avvicinava e si andava oltre l’ora della cena, che i figli e la moglie (la straordinaria signora Marinella, il suo vero punto di forza) attendevano e che cresceva l’imbarazzo nello spaurito interlocutore (tra gli anni ‘60 e ‘70 tremavo quando l’ora dell’appuntamento era intorno alle 18-19, sapendo che non sarei andato via prima delle 22). Era poi sempre disponibile; accettava di buon grado un invito a cena (sempre dopo essersi accertato di non trovarsi in compagnia di persone che non stimava), e non era difficile incontrarlo in casa di amici. Eppure la sua giornata era segnata anche da altro, oltre che dalla riflessione, lo studio, la scrittura o la lettura, e, ovviamente, la famiglia. Sylos sentiva dentro di sé la missione di denunciare il malaffare dove aveva sentore che si annidasse, l’acquiescenza verso ciò che non andava, il patteggiamento, la rinuncia alla difesa dei principi. Il suo impegno nell’Università non è stato solo la creazione del Dipartimento di Economia Politica, l’insegnamento, il magistero e l’impegno per tenere limpidi e in ambito meritocratico i concorsi a cattedra (significativa era la volontà che i suoi allievi si facessero strada da soli). L’Università della Calabria e quella di Tor Vergata devono a lui la loro fondazione, in quanto membro del Comitato Tecnico Ordinatore. Di solito non vi è gran merito a farne parte, quando tutto va secondo i canoni previsti e il Comitato si scioglie avendo esaurito i suoi compiti. Ma in entrambi i casi egli si imbatté in una resistenza locale, fatta di delegittimazione e intimidazione; in coalizioni di piccoli proprietari i cui suoli rischiavano di essere espropriati, sostenuti da personaggi eminenti per fini non nobili; in tentativi di condizionamento e in denuncie fittizie (ma infamanti) a scopo dilatorio e di pressione, perfino in tentativi di corruzione. Nel sottofondo: la speculazione immobiliare. Solo la sua tempra e la grinta potevano consentirgli di non mollare tutto e tornare al tranquillo tran tran di professore. Diceva che aveva compreso attraverso queste vicende cosa vuol dire “sistema”, quegli intrecci perversi che possono stabilirsi tra interessi dispersi, potere locale, sistema amministrativo, media, acquiescenza di soggetti terzi, che gli avevano reso, ad esempio, difficile in Calabria perfino trovare un avvocato disposto a difenderlo; trovandolo poi in un avvocato missino (e quindi fuori dal “sistema”). Per Sylos le persone per bene non avevano colore politico. Considerava un dovere adoperarsi negli stessi anni per consentire a colleghi dell’Est di avere permessi per venire in occidente, tempestando le loro ambasciate e procurando loro fondi. Spese molto tempo negli anni ‘70 e ‘80 a ricostruire le trame oscure che si svilupparono nell’epoca dei servizi segreti deviati, massonerie, organi dello Stato coinvolti, P2. Era diventato un vero esperto di quegli anni; ogni tanto qualche informazione tratta dalle fonti più disparate arricchiva il suo dossier. Inseguiva suoi sospetti (tutt’altro che infondati) e teneva una nutrita documentazione su un preminente personaggio politico del tempo, tutt’ora vivente. D’altra parte egli era anche un esperto di mafia — che non ricordo bene se avesse connessione con queste sue ricostruzioni — al cui studio si era dedicato durante il periodo in cui, appena cattedratico, aveva insegnato a Catania. Le tante battaglie civili in cui è stato coinvolto avevano sempre un bersaglio, oltre il malaffare: l’acquiescenza, l’arte italica del compromesso, il tirare a campare, il voltarsi dall’altra parte. Per tutti si veda il suo libro-intervista: Un paese a civiltà limitata, 2001. Quasi sempre la sua è stata una posizione di resistenza civile. Negli ultimi anni è riuscito a trasformare la sua indignazione verso il degrado della vita istituzionale e pubblica e verso l’abbassamento delle difese morali in una campagna nazionale. Era coinvolto in primo luogo come cittadino; ma era coinvolto anche come economista dello sviluppo che sa che la competitività di un paese ha come precondizione un buon vivere civile. E che l’etica da cui sono pervase o meno le istituzioni è fondamentale per il progresso economico. Egli era stato da sempre convinto che l’avvento del fascismo fosse stato agevolato dall’assuefazione della pubblica opinione alla corrosione della convivenza civile, con la complicità dei tanti che non ne avevano voluto comprendere la gravità, avevano avuto atteggiamenti, magari avversi nell’intimo, ma di tepore civico verso quanto si andava logorando quotidianamente nel tessuto civile e culturale, anche a protezione della propria tranquillità personale. Gli ultimi cinque anni li ha vissuti da combattente all’insegna di questo convincimento. Si è speso con un fervore morale salveminiano con interviste, articoli, appelli, libri (Berlusconi e gli anticorpi. Diario di un cittadino indignato, 2003) e interventi recitati in tutte le sedi consentite per tener desta l’indignazione morale. È stato radicalmente intransigente e sferzante. In questo suo impeto ha finito, tuttavia, per essere sospettoso anche verso coloro che percorressero strade di opposizione al governo di centro destra meno irriducibili e più politiche della sua. E, parallelamente, è stato poco disposto a esaminare le ragioni di chi riteneva che fosse stato giusto il tentativo del 1996-8 di rifondare le regole e le istituzioni in modo condiviso, avvenuto attraverso la Bicamerale Istituzionale; tentativo che egli non riusciva a leggere altro che sotto il profilo della compromissione e dello scambio con chi non avrebbe dovuto essere legittimato. Fu toccato profondamente dal fatto che due suoi allevi, Michele Salvati e il sottoscritto, che sentiva tra i più vicini alla sua lezione metodologica, allora fossero in Parlamento e non condividessero il suo giudizio. La sua posizione ha avuto un eco straordinaria e sferzante nel Paese a riprova di quanto forte fosse il suo ascendente, il suo prestigio e la trasmissione di forza morale verso settori di pubblica opinione, che avevano ormai travalicavano l’ambito intellettuale. Sylos non avrebbe mai accettato la compagnia di chi non fosse specchiato, irreprensibile e genuino ma forse qualche applauso gli è venuto anche da settori e movimenti che certo condividevano la sua intransigenza, ma che poco culturalmente avrebbero potuto condividere con lui in circostanze diverse; egli riformista nell’animo e nel pensiero; altri attraversati da correnti di minoritarismo e di estraneità a una cultura di governo. Due intransigenze diverse.

11. – Ci mancherà

Ricordare Sylos solo come economista sarebbe stata una tale riduzione della sua personalità, da risultare impossibile a chiunque. Personalità ingombrante e straripante, che riempiva la scena nell’accademia, come nella cultura e nella vita pubblica, Sylos mancherà a questo Paese. Ma è al Sylos economista che voglio riandare in chiusura, con uno sguardo (amaro) al futuro, oltre che al passato. Quando egli compì 70 anni, che allora comportava l’abbandono dell’insegnamento, gli fu fatto omaggio di un libro in suo onore (Istituzioni e mercato nello sviluppo economico, 1980, a cura di Biasco, Roncaglia, Salvati), cui contribuirono con saggi inediti, scritti appositamente per l’occasione, una serie di giganti del pensiero economico del dopoguerra: Goodwin, Kindelberger, Minsky, Steindl, Rotschild, Modigliani; Bharadwaj e, poi, Baumol, Eckaus, Godley, Rosenberg e Sachs (basterebbe questo elenco a capire quale risonanza internazionale abbia avuto la sua opera scientifica). Se escludiamo Modigliani — che pure è stato sempre molto attento alla corrente di pensiero che Sylos ha rappresentato, al pari di Samuelson e Solow, che inviarono calorosi messaggi nell’occasione — quei nomi rappresentano un campionario di studiosi che, con Sylos, ha imposto rispetto a un modo di concepire l’economia. Una “squadra” come questa — se di squadra si può parlare per tante individualità — nasce in una temperie particolare di tensione culturale e fervore teorico. Nel frattempo sugli studi di economia è passato il rullo compressore della standardizzazione che li ha appiattiti e uniformati in un unico paradigma di scienza normale (nel senso in cui Kuhn la definisce), sotto l’impulso di istituzioni accademiche e culturali statunitensi (e, per conformazione, europee) che ne hanno adottato e trasmesso il canone e che oggi stabiliscono lo standard professionale di chi si forma in questa disciplina. E poiché in epoca di globalizzazione, l’egemonia culturale tende a uniformare le correnti di pensiero, quel tipo di formazione finisce per pervadere — oltre che le accademie — le burocrazie, le sfere della politica, i centri di diffusione culturale, i media e dare la base al senso comune. Se un Sylos muore non è sostituibile. Coloro che ho volutamente citato per primi nell’elenco precedente, ci hanno abbandonato prima di Sylos. E ancor prima di loro erano scomparsi altri economisti, che, come Kaldor e Okun, apparterrebbero idealmente a quell’elenco. Certo esistono altri fuochi di riflessione e indirizzi del pensiero critico. Sylos li avrebbe visti con simpatia (ma non indistintamente) e forse utilizzati. Tuttavia non sono approcci intercambiabili con quello che ha espresso la genìa di cui Sylos faceva parte, perché qui si tratta di un filone a sé con ingredienti sui generis. Quei giganti del pensiero erano in ogni caso capaci, ovunque andasse la professione, di dar forza di penetrazione alle loro posizioni, attrarre attenzione e rispetto, riempire da soli le caselle di una impostazione creativa. Ma scomparsi loro una intera impostazione rischia di spegnersi o trovare approdo in altre discipline, perché oggi uno studioso con una formazione multidisciplinare, induttiva e immaginativa, alla ricerca di risposte disciplinari per l’analisi sociale o per i problemi (anche operativi) dello sviluppo e della crescita non eligerebbe l’economia normale come proprio campo di studio. Ma la ruota continuerà a girare e per fortuna la forza del pensiero che Sylos e gli altri ci lasciano è tale da continuare a seminare e mantenere un patrimonio che ritornerà prezioso quando questa ondata di ideologismo si spegnerà.

S. BIASCO 27 Paolo Sylos Labini: le forze della, etc. Scritti selezionati di Sylos Labini SYLOS LABINI P., «The Keynesians (a Letter from America to a Friend)», Banca Nazionale del Lavoro, Quarterly Review, vol. 2, n. 11, 1949, pp. 238-42. — —, Economia capitalistiche e pianificate, Laterza, Bari, 1960. — —, Oligopolio e progresso tecnico, Giuffrè, Milano, 1956; rist. 1957; nuova ediz., Einaudi, 1964, 1967. SYLOS LABINI P. – GUARINO G., L’industria petrolifera, Giuffrè, Milano, 1956. SYLOS LABINI P. – FUÀ G., Idee per la programmazione, Laterza, Bari, 1963. SYLOS LABINI P. (a cura di), Problemi dell’economia siciliana, Feltrinelli, Milano, 1966. SYLOS LABINI P., «Prezzi, distribuzione e investimenti in Italia dal 1951 al 1966: uno schema interpretativo», Moneta e Credito, vol. 20, 1967, pp. 265-344; trad. inglese, «Prices, Distribution and Investment in Italy 1951-1966: An Interpretation», Banca Nazionale del Lavoro, Quarterly Review, vol. 20 n. 83, pp. 316- 75. — —, Dispense di economia 1968-69, Edizioni dell’Ateneo, Roma, 1969. — —, Problemi dello sviluppo economico, Laterza, Bari, 1970. — —, Sindacati, inflazione e produttività, Laterza, Bari, 1972; trad. inglese Trade Unions, Inflation and Productivity, Lexington Books, Lexington (Mass.), 1974. — —, Saggio sulle classi sociali, Laterza, Roma-Bari, 1974. — —, «Competition: The Product Markets», in WILSON T. – SKINNER A.S. (eds.), The Market and the State, Clarendon Press, Oxford, 1976, pp. 200-32; trad. it. in Sylos Labini P., 1984, pp. 5-38. — —, «Prices and Income Distribution in Manufacturing Industry», Journal of Post Keynesian Economics, vol. 2, n. 1, 1979, pp. 3-25. — —, Il sottosviluppo e l’economia contemporanea, Laterza, Roma-Bari, 1983. — —, Le forze dello sviluppo e del declino, Laterza, Roma-Bari, 1984. — —, «La spirale e l’arco», Economia Politica, n. 1, 1985. — —, Le classi sociali negli anni ‘80, Laterza, Roma-Bari, 1986. — —, «Anche la teoria della disoccupazione è storicamente condizionata», Moneta e Credito, vol. 40, n. 159, 1987, pp. 247-301; rist. in Sylos Labini P., 1993, pp. 184-241. — —, Nuove tecnologie e disoccupazione, Laterza, Roma-Bari, 1989. — —, «La riduzione dei tassi di interesse», Moneta e Credito, vol. 42, n. 168, 1989, pp. 445-477. — —, Elementi di dinamica economica, Laterza, Roma-Bari, 1992. — —, Progresso tecnico e sviluppo ciclico, Laterza, Roma-Bari, 1993; trad. inglese Economic Growth and Business Cycles, Edward Elgar, Aldershot, 1993. SYLOS LABINI P. (a cura di), Carlo Marx: è tempo di un bilancio, Laterza, Roma-Bari, 1994. SYLOS LABINI P., «Why the Interpretation of the Cobb-Douglas Production Function Must be Radically Changed», Structural Change and Economic Dynamics, vol. 6, 1995, pp. 485-504. SYLOS LABINI P., Sottosviluppo. Una strategia di riforme, Laterza, Roma-Bari, 2000. — —, Scritti sul Mezzogiorno (1954-2001), Piero Lacaita Editore, Manduria-BariRoma, 2003a. — —, Berlusconi e gli anticorpi. Diario di un cittadino indignato, Laterza, RomaBari, 2003b. — —, Torniamo ai classici, Laterza, Roma-Bari, 2005.

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