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POSSA IL MIO SANGUE SERVIRE – di ALDO CAZZULLO – ed. RIZZOLI
intervista a Aldo Cazzullo: “Possa il mio libro ricordare il sangue versato per la Resistenza”
Il giornalista parla del suo ultimo libro “Possa il mio sangue servire”: raccolta di storie di uomini e donne che “hanno resistito” al nazifascismo.
di Claudia Mura
Facile parlare di Resistenza alla vigilia del 25 aprile, Festa nazionale della Liberazione dal nazifascismo. Ma Aldo Cazzullo, inviato ed editorialista del Corriere della Sera, è da tempo che si dedica all’argomento e la sua ultima fatica, Possa il mio sangue servire (Rizzoli editore), raccoglie le storie di uomini e donne che “hanno resistito”, per l’appunto, alla dittatura del nazifascismo e per questo sono morti. Le loro storie appaiono attraverso le lettere scritte ai parenti prima dell’esecuzione della condanna, missive in cui dicono addio ai cari e alla vita professando sempre l’amore per la patria e l’orgoglio per il proprio sacrificio.
Perché Aldo Cazzullo ha sentito il bisogno di scrivere questo libro?
“Perché ero un po’ stanco di sentire denigrare la Resistenza, di sentire denigrare i partigiani come se fossero stati i carnefici vedendo invece i ‘ragazzi di Salò’ in posizione assolutoria come se fossero stati le vittime. Le cose non sono andate così: i vinti, come li si chiama adesso, sono vinti dopo il 25 aprile ma prima hanno il coltello dalla parte del manico e lo usano. Dalla parte di Salò c’è la formidabile macchina bellica nazista, mentre ‘i vincitori’ vengono braccati, impiccati ed esposti coi cartelli al collo. È importante riconoscere il coraggio dei partigiani, anche raccontando le pagine nere della Resistenza che pure ci sono state e non vanno nascoste. E poi è importante dire che la Resistenza non fu fatta solo da partigiani. Resistenti furono i carabinieri, i militari internati in Germania che preferirono restare nei lager nazisti piuttosto che andare a Salò, i sacerdoti e le suore. Ci furono 30 suore italiane ‘giuste fra le nazioni’ per avere salvato centinaia di ebrei. E poi le donne, che dettero un contributo straordinario alla Resistenza. Non è un caso che dal giugno del ’46 le donne possano votare per la prima volta. È un diritto che si sono conquistate con il loro impegno per la libertà e la democrazia”.
Perché c’è ancora tanto dibattito e polemica attorno alla Resistenza che resta un argomento attuale anche dopo 70 anni?
“Un po’ per ignoranza e un po’ per radici famigliari. La memoria nazionale appassiona gli italiani soprattutto quando incrocia la memoria delle loro famiglie. Me ne sono accorto scrivendo La guerra dei nostri nonni (edito da Mondadori, ndr) e anche Possa il mio sangue servire. L’ultimo capitolo di entrambi i libri è scritto con l’aiuto dei miei amici di Facebook”.
Quindi non è stato solo lavoro d’archivio. Ha usato anche i social network per procurarsi il materiale su cui scrivere?
“Sì, ai miei amici su Fb e a chi mi segue sull’inserto Sette del Corriere ho chiesto di raccontarmi la storia dei loro nonni nella Grande guerra o dei loro padri e madri nella Resistenza. Ho ricevuto centinaia di mail, alcune con storie straordinarie, ma tutti mi hanno chiesto la stessa cosa: ‘per favore parla di mio nonno o di mio padre, non perché fosse un eroe ma perché era una brava persona e amava l’Italia. Credeva nell’Italia e non si riconoscerebbe in quella di oggi’. E questo mi ha colpito perché mi ha confermato che oggi siamo più legati all’Italia di quanto crediamo. Nello stesso tempo però, tanti hanno avuto il padre e il nonno fascista anche dopo l’otto settembre, e pochi riconoscono i loro errori. È più facile un’adesione di pancia e se poi si scopre che anche dall’altra parte ci fu gente che si comportò male e commise orrori, allora tanto vale mettere tutti sullo stesso piano. Non è così”.
Nel libro lei prende posizione rifiutando quel revisionismo che porta a mettere sullo stesso piano etico entrambe le fazioni.
“C’è stata una parte giusta e una sbagliata. Chi ha combattuto contro i nazisti ha fatto la scelta giusta, gli altri quella sbagliata, magari in buona fede e pensando di servire davvero la patria. Magari per avere senso dello Stato bisognerà attendere altri 70 anni”.
A corredo dell’ ultima lettera del capitano Franco Balbis, lei scrive che “c’è da sentirsi un verme per come abbiamo ridotto questa terra” che questo uomo voleva riportare a sentirsi onorata. Perché c’è da sentirsi un verme?
“Perché al di là dell’ostilità che ancora circonda la Resistenza, la cosa più grave è l’indifferenza. I ragazzi non sanno cosa è successo a Sant’Anna di Stazzema, a Boves, a Civitella Val di Chiana, Marzabotto, ad Acerra e a Gubbio. E cito solo alcune delle stragi nazifascite. Ma è colpa nostra che non siamo riusciti a trasmettergli passione civile. Che non siamo riusciti a raccontargli che gli italiani non sono sempre stati i furbetti dell’arte di arrangiarsi”.
Qual è il personaggio che più l’ha colpita?
“Le donne e fra di loro in particolare Cleonice Tomassetti: una donna delle pulizie che scappò da Roma e cercò di unirsi ai partigiani ma fu catturata prima di riuscirci. Venne percossa a lungo e disse ai carnefici ‘se pensate di umiliare il mio corpo è superfluo farlo, esso è già annientato. Se invece volete umiliare il mio spirito, anche questo è inutile perché quello non lo domerete mai’. Morì gridando ‘viva l’Italia’, ‘viva la libertà per tutti’, e facendo coraggio ai suoi compagni fino alla fine. Ma ricordo pure Irma Bandiera: per strapparle i nomi dei compagni fu portata davanti alla casa dove c’erano i suoi figli. ‘Se non parli non li rivedrai più’, le dissero. Lei non parlò e i fascisti le cavarono gli occhi. Sono storie drammatiche che si preferirebbe non raccontare ma si deve, in modo che oggi le ragazze possano essere orgogliose di ciò che hanno fatto queste donne che allora magari avevano la loro età”.
Le testimonianze di cui parla sono espresse nel libro attraverso lettere a tratti struggenti, come ha fatto ad affrontare emotivamente tutto questo?
“Scrivevo e lacrimavo come un vitello. Le lettere dei condannati a morte della Resistenza si assomigliano tutte. Sono scritte da comunisti, cattolici, liberali, poco importa. Da chi ha studiato e chi non ha potuto farlo. Sono tutte ben scritte perché era una generazione abituata a scrivere. Molti invocano Dio e i santi, anche i comunisti che a volte invocano don Bosco perché hanno studiato dai Salesiani. Tutti sono certi della vittoria finale, tutti sentono che verrà un paese migliore e chi ha figli raccomanda sempre lo studio, non solo come mezzo di elevazione sociale ma anche per costruire un’Italia più libera e più giusta”.
Altra cosa comune a tante lettere è che i condannati non vogliono grandi lutti ma chiedono di essere ricordati.
“Vogliono innanzi tutto chiarire di non avere fatto niente di male perché noi oggi li celebriamo come eroi ma allora venivano appesi con cartelli denigratori al collo dopo l’esecuzione. Chiedono scusa per avere anteposto la patria ai propri cari e poi chiedono che si parli di loro a chi resta. C’è l’orgoglio di morire per la patria ma il terrore di essere dimenticati. E il rischio c’è visto che i partigiani e i resistenti se ne stanno andando uno ad uno e non ci sono più altri testimoni dell’epoca. Per questo è importante salvare la loro memoria”.



