Provincia, metropoli ed epidemia. Due ipotesi che sono forse due sciocchezze.
Fausto Anderlini ieri si chiedeva quali fossero le ragioni che avrebbero determinato l’origine del contagio in aree di provincia, in piccoli centri, e non invece, come ti saresti aspettato, nelle grandi metropoli, dove il tasso di dinamicità, di affollamento e di ‘copertura’ e ‘calpestabilità’ dello spazio urbano è sensibilmente più alto. Potrebbe, questo, apparire un paradosso, ma forse non lo è. Non sempre la densità di corpi fisici nello spazio è indice di interscambio reale, effettivo, e dunque di contatto ‘attivo’. Io credo che in provincia, in un piccolo centro, la percentuale di socialità è proporzionalmente più alta del numero effettivo dei soggetti residenti od operanti. Ritengo che non a caso si parli di solitudine della metropoli (solitudine non solo come distanza dell’Altro, ma anche come irrelatezza). Le grandi città, lo posso testimoniare io come altri, sono affollate di corpi, che spesso convivono in spazi anche ristretti, ma non si pongono in relazione affettiva ed effettiva, non agevolano lo scambio (difficilmente sulle metropolitane vedi gente parlare, domina quasi sempre il silenzio delle connessioni digitali, raramente della lettura). Ritengo che non possa bastare il contatto a sviluppare un contagio, ma la relazione concreta che si stabilisce tra gli individui, la disposizione reciproca alla condivisione. Questo a Roma, Milano, non c’è, o almeno non c’è nella misura dovuta. La solitudine nella massa, accentua la prima e attenua negli effetti la seconda. Non basta insomma essere vicini, serve uno scambio vero.
C’è poi un altro dato, apparentemente alternativo al precedente. Ilaria Capua sostiene che non sia possibile computare il numero degli effettivi contagiati. La cifra circolante è una sottostima, perché è frutto soltanto dei controlli operati verso chi ha manifestato sintomi palesi. È possibile, invece, che il numero dei contagiati (e dunque di chi ha sviluppato anticorpi) sia molto, ma moltissimo più alto. Mi chiedo: e se le grandi città, nella loro promiscua dinamicità, agevolassero la diffusione di forme attenuate del morbo, sviluppassero la formazione di anticorpi e potenziassero quindi il sistema immunitario di ognuno? Con ciò sollevando una barriera contro il virus e la sua recrudescenza, opposta stavolta da organismi più adatti alla lotta con la patologia? E, di contro, la provincia non la sviluppasse e la opponesse nella stessa misura? Lo dico da profano, da ignorante e chiedo venia. Però una sociobiologia medica credo che sia tanto più necessaria proprio perché siamo in tempi di possibili pandemie, e uno studio anche sociologico della patologia, forse consentirebbe di dirottare le risorse nei luoghi più delicati e a rischio, per prevenire focolai e diminuire il pericolo generale. Un dato è certo, le epidemie mutano i corsi storici, determinano soluzioni di continuità, come la storia insegna. Le crisi, come sappiamo, sono tragedie e occasioni nella stessa misura. E talvolta appaiono davvero opportunità irripetibili per uscire dalla bonaccia degli uomini soli al comando e dalle trappole della comunicazione, e tentare un’altra strada.
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di Fausto Anderlini
Il virus dell’interno
Fa i tanti contrastanti pareri dei virologi e degli epidemiologi stupisce la trascuratezza con cui sono trattati i rilievi sociologico ambientali. Data l’origine dell’epidemia i corridoi delle contaminazione avrebbero dovuto essere, a rigore, le zone con forte concentrazione di cinesi e le aree metropolitane in genere. Cioè i luoghi con popolazioni più legate all’epicentro virale, più aperti sulle relazioni globali e con maggiore intensità delle relazioni sociali. Se è vero che le regioni colpite sono quelle a più alto livello di sviluppo è vero che i focolai, stranamente, coincidono con aree periferiche interne: il lodigiano, la Val seriana, la zona euganea, Orzinuovi….Non ho dati di dettaglio aggiornati, ma mi sembra palusibile rilevare certi tratti ricorsivi: popolazioni residenti con una forte componente pendolare alla scala comprensoriale, modi di vita rarefatti, forte incidenza di abitazioni unifamiliari, luoghi limitati ma concentrati di socializzazione, come i bar, una alimentazione carnivora spesso orientata verso carni neglette (rane, anguille, pesci gatto, nutrie ecc.), comunque poco vegetariana e molto ‘continentale’, indifferenza verso le culture post-materialiste e il romanticismo ecologico in specie, durezza della mentalità, orientamento politico leghista, stili di vita, anche nella sfera sessuale, alieni alla modernità ma anche al rispetto delle tradizioni basate sul pudore (sul sesso nella provincia un tempo bigotta c’è una intera letteratura….) ecc. Se alcuni di questi elementi sono decisamente spuri e non suscettivi di alcun nesso causale, se non meramente contestuale (il leghismo sta alla contaminazione non più di quanto la vendita delle cassate siciliane stia alla mafia), altre relazioni sarebbero forse meritevoli di indagine. Resta comunque inoppugnabile, almeno sino ad ora, la constatazione che i focolai coincidono regolarmente con aree di carattere territoriale comprensoriale site alla periferia esterna dei plessi metropolitani. Ci deve essere qualcosa di specifico che alimenta il contagio, una sorta di spirale interna, quale che sia la causa d’innesco, endogena o esogena. E’ aperto il dibattito.


