Fonte: Minima Cardiniana
di MARINA MONTESANO, Professoressa ordinaria nell’Università di Messina – 10 febbraio 2019
La storia contemporanea del Venezuela si può far cominciare con il decollo dell’industria petrolifera a partire dal 1922; ricco in petrolio al contrario degli altri stati circostanti, il Venezuela ha dunque potuto sviluppare la propria economia, sotto il controllo degli Stati Uniti: con il favore del generale e dittatore Juan Vicente Gómez furono le compagnie petrolifere statunitensi a scrivere la prima legge sul petrolio del Paese, ovviamente a proprio favore. Nel 1943 la Standard Oil del New Jersey sottoscrisse un nuovo accordo con il Venezuela basato sul principio del 50–50, che già rappresentava un miglioramento per il paese latinoamericano. Dopo che un colpo di stato portò al potere un governo di sinistra nel 1945 furono negoziati trattati anche più favorevoli. Nella seconda metà del secolo questa nuova situazione e alcuni investimenti sociali produssero effetti positivi sull’economia del paese; tuttavia, la crisi economica planetaria alla fine degli anni ’80 travolse anche il Venezuela, con l’aggravarsi della crisi sociale a causa delle politiche liberiste di Carlos Andrés Pérez.
È questo il contesto nel quale prende il potere Hugo Chávez, eletto presidente nel 1999 di un paese potenzialmente ricco, ma con squilibri sociali immensi. Tanto per dare un’idea, prima dell’elezione di Chavez, il 75% dei terreni agricoli del Venezuela era di proprietà del 5% dei latifondisti e il 75% dei proprietari terrieri più piccoli ne controllava solo il 6%. Con i soldi derivanti dalla vendita del petrolio, il nuovo presidente avvia una campagna di alfabetizzazione, di cure mediche gratuite (grazie ai medici cubani ‘importati’ in cambio di petrolio), di controllo dei prezzi del cibo. Chiaro che queste manovre non sono sempre perfettamente efficaci, anche perché i ceti medi ed alti del paese hanno timore di perdere potere e boicottano i programmi presidenziali, per esempio cercando di esportare al nero il cibo prodotto contro il piano di autosufficienza alimentare messo in atto. Ed è chiaro anche come sia difficile far funzionare progetti del genere in un contesto mondiale nel quale si va nella direzione opposta: ossia verso l’iperconcentrazione della ricchezza nelle mani di una élite molto ristretta (una tendenza che è andata aumentando in modo esponenziale negli ultimi anni) e di un mondo globalizzato.
Le riforme di vasta portata messe in atto da Chávez gli hanno assicurato la rielezione travolgente nel 2007, pur con l’opposizione feroce delle classi medie urbane, delle élite sociali e dei partiti politici tradizionali. Questa frattura è visibile anche oggi: nonostante i media scelgano di far vedere sempre e solo le manifestazioni di protesta antigovernative, ci sono imponenti mobilitazioni a favore dell’attuale presidente.
Certamente, Nicolás Maduro non ha il carisma e le capacità di Chávez, che erano fattori di stabilizzazione. Ha anche commesso diversi errori: soprattutto, in un quadro economico sfavorevole, ha utilizzato i proventi del petrolio per incrementare gli investimenti pubblici e la ridistribuzione del reddito; manovra che, di per sé, può essere positiva, ma che si è scontrata con l’incapacità tecnica di aumentare la produzione da una parte, con il crollo dei prezzi del petrolio a partire da giugno 2014.
Le elezioni legislative del dicembre 2015 sono state una sconfitta grave per il presidente in carica, con la coalizione di opposizione che ha guadagnato i due terzi dell’assemblea nazionale. Da quel momento si è aperta una crisi istituzionale fra un’assemblea che cercava di delegittimare Maduro attraverso nuove leggi e un presidente appoggiato da esercito e magistratura che, attraverso l’apertura di un dibattito costituzionale, provava a svuotare di potere l’assemblea.
Che quanto stesse avvenendo fosse grave pare fuori di dubbio, e tuttavia il tutto si è sostanzialmente svolto all’interno di un dibattito politico-istituzionale, non al di fuori di esso, nel senso che ci sono state tensioni e persino episodi di violenza: ma non c’è stato alcun golpe di Maduro. Va inoltre segnalato, tanto per dare un quadro più completo, che il 15 ottobre 2017 durante le elezioni regionali il Grande Polo Patriottico, ossia il partito di governo, ha vinto 18 dei 23 governatorati, mentre l’opposizione solo 5; nel dicembre dello stesso anno durante le elezioni comunali ha vinto 306 dei 337 sindaci.
Sono state elezioni irregolari? O sono forse il segno di un paese diviso, impaurito? Soprattutto perché la crisi economica obiettiva è stata esacerbata in modo criminale dall’estero almeno a partire dall’elezione di Donald Trump, con la politica aggressiva subito attuata insieme ai nuovi governi di destra dell’America Latina, Brasile in testa. Già dal 2017 l’amministrazione Trump ha vietato alle aziende e alle istituzioni finanziarie statunitensi di acquistare azioni e obbligazioni emesse dalle società pubbliche del Venezuela; come nel caso delle sanzioni contro Cuba e l’Iran, e al di là del diritto internazionale, queste finiscono per minacciare anche le imprese di paesi terzi che vogliano commerciare con il Venezuela. Ci si può quindi chiedere se le vittorie elettorali locali di Maduro non rappresentino un rigurgito di orgoglio nazionale per un popolo che non ci sta a farsi sottomettere.
In un quadro qual è quello tratteggiato, l’autoproclamazione del presidente del parlamento Juan Guaidó a “presidente ad interim” del paese è al di fuori di qualunque legge e si configura, questa sì, come un tentativo di golpe. Quando poi, com’è avvenuto venerdì 8, questi arriva addirittura a evocare la possibilità di un intervento militare statunitense nel suo stesso paese, siamo dinanzi a un “alto tradimento” de facto,che andrebbe rigorosamente sanzionato. Che in tale contesto politico tanti paesi dell’Unione Europea (con il governo inglese che addirittura spinge perché la Banca d’Inghilterra immobilizzi le riserve auree lì depositate dal Venezuela) si siano schierati dalla parte del golpista e traditore Guaidó è sconcertante, al pari della disinformazione che regna su televisioni e giornali, dov’è diventato difficile imbattersi in versioni obiettive di quanto sta avvenendo. Dovremmo averci fatto l’abitudine, ormai, poiché è da quasi due decenni a questa parte che si minacciano e si attuano interventi militari nel mondo con falsi presupposti sostenuti dai media: salvo poi “pentirsi”, com’è avvenuto, per esempio, con Iraq e Libia. Dobbiamo attenderci lo stesso anche per il Venezuela?