Regis Iussu Cantio Et Reliqua Canonica Arte Resoluta

per Eleonora Gabutti
Autore originale del testo: Eleonora Gabutti

C’erano una volta, in Europa, tre individui, ai quali, per davvero o per finta, capitò di vivere più o meno nello stesso periodo, ed i quali interagirono, forse si o forse no, con i maggiori eventi e personaggi di quel pezzo di storia in cui furono al mondo. Uno dei tre viveva in Westfalia, uno in Liguria, mentre l’ultimo in Germania. Potrebbe essere l’inizio di un bel racconto, ma è esattamente quello che è successo a tre grandi personaggi della cultura europea, in ordine, Candide, Cosimo Piovasco di Rondò e Johann Sebastian Bach. La correlazione tra di loro è più profonda di quanto sembri, anche se nessuno dei tre conobbe mai gli altri due, per varie ed ovvie ragioni.

Siamo nell’Europa del Sei-Settecento, nel 1648 era appena finita la Guerra dei Trent’Anni, e si appropinquava un secolo pieno di guerre altrettanto sanguinose, ma soprattutto conflitti che furono i primi a livello realmente globale, poiché coinvolgevano non solamente le Nazioni europee, ma anche le loro colonie e, giustamente, le loro popolazioni. Legati ai tre personaggi citati prima, si possono aggiungere tre sovrani, che hanno avuto un ruolo chiave nelle loro vicende: Federico II Hohenzollern di Prussia, Maria Teresa d’Asburgo-Lorena, imperatrice d’Austria, ed Augusto III di Polonia. Ma non finisce qui, perché possiamo anche parlare di altri filosofi in questo ambito, vale a dire Leibniz, Cartesio, Voltaire ovviamente e altri, tutto avvolto in una cornice che ha segnato profondamente la storia dell’Europa e del mondo: l’Illuminismo.

Tra Candide e Cosimo, personaggi talmente vicini a noi da essere nati dalla mente di due grandissimi geni della letteratura e della filosofia, il paragone è praticamente lampante. Chi per costrizione, chi per scelta, fatto sta che si sono ritrovati fuori dalle loro case, in giro per un mondo nuovo, come stava succedendo alle menti di quel periodo, d’altronde. Probabilmente l’unico altro periodo in cui le loro storie si sarebbero potute svolgere è quello delle grandi scoperte geografiche. Io vedo bene, soprattutto Cosimo, nei panni di Alonso de Contreras, alla conquista degli alberi in Sudamerica. Ma, in effetti, questa voglia di scoprire, questa curiosità, ma anche voglia di libertà sono parte dello spirito dei filosofi del Settecento. Candide ricalca molto bene le vicende biografiche del suo autore (dalla presenza durante il grande terremoto di Lisbona alla cacciata da diverse corti), tanto da sembrare una semi-autobiografia filosofica. Bach, invece, è stato forse il più grande Genio con la “G” maiuscola della storia della musica occidentale. L’ultimo dei grandi barocchi, ma il più moderno, razionale, eppure tanto pieno di sentimento, da trascendere ogni possibile definizione. Dal punto di vista prettamente storico, Bach lavorò alla corte di Augusto III, elettore di Sassonia e poi re di Polonia, a ridosso proprio della guerra di successione polacca, ma si trovò anche a comporre qualcosa di straordinariamente geniale come la Musikalisches Opfer su di un tema datogli da Federico II in persona il quale, oltre ad essere un gran re, era pure un buon musicista, come testimonia uno dei quadri più rappresentativi della sua corte. Ora però prendiamo in esame brevemente i tre personaggi singolarmente.

“Tutto questo è quanto c’è di meglio; […] è impossibile che le cose non siano dove sono; perché tutto è bene.” Questa massima estremamente ottimistica non sembra nulla di sbagliato decontestualizzata. Sapendo però che Pangloss, filosofo (esperto di méthaphysico-théologo-cosmolo-nigologie), la pronunciò proprio dopo il terremoto di Lisbona, dove c’erano stati moltissimi morti e danni, nonché in altre occasioni, si deve per forza considerare l’eccessivo ottimismo, che sconfina quasi in una resa ad ogni cosa che succede nella vita, con un certo fatalismo. Più che la vicenda di Candide in sé, Voltaire fa una critica feroce ed elegante, come sapeva fare lui, alla filosofia di Leibniz. Ma Leibniz ha davvero detto solo che questo è il “migliore dei mondi possibili”? Si, ma no. Voltaire, creando il personaggio di Pangloss che guida Candide nei suoi viaggi, non critica la filosofia di Leibniz in sé, ma l’interpretazione che è stata data all’idea del migliore dei mondi possibili estrapolandola da tutto il lungo ragionamento logico che la precedeva. Quella era solo la conclusione. In effetti pare strano ridurre un filosofo che ha lavorato tanto, in tanti ambiti diversi, ma soprattutto nella logica e nella matematica, ad un inguaribile ottimista. L’idea, per quanto astrusa, che questo sia il migliore dei mondi possibili nasce dal fatto che questo per Leibniz è l’unico mondo logicamente possibile. Vi è in mezzo tutta la questione delle monadi, dell’essere, di Dio, ma il punto non è questo. Confrontando allora quello che ha effettivamente scritto e quello che critica Voltaire, si arriva a capire che la filosofia di Leibniz era troppo complicata per i suoi discepoli ed ammiratori, per lo meno quelli che ha conosciuto Voltaire, i quali hanno ridotto anni di riflessioni al “migliore dei mondi possibili” così com’è, implicando una perfezione ed addirittura un piano divino nelle cose che succedono, per quanto orribili siano. E in effetti Candide di cose assurde, terrificanti ne ha viste nel libro. La sua è stata un’odissea nel mondo, che è brutto, per usare un termine bambinesco. Questa visione del mondo, come pieno di sofferenza, la si ritrova anche un pochino più in là, nel buddhismo (se Buddha vuol dire “illuminato”, il buddhismo non è una specie di illuminismo?). Quando Siddharta, secondo la leggenda, uscì da palazzo di nascosto, vide tutte le cose orribili del mondo, capì che c’era bisogno di trovare una luce per risolverle. Quindi la luce, che sia ragione o che trascenda da essa, è una ricerca che accomuna il mondo in tutta la sua sfericità. In sintesi: “il faut cultiver notre jardin, dobbiamo coltivare il nostro giardino”. Se il mondo non può essere il migliore, per lo meno curiamoci del nostro piccolo nel nostro piccolo.

“Il libro allora a tratti tende ad assomigliare a un libro scritto nel Settecento (a quel particolare genere di libro che fu il ‘racconto filosofico’, come il Candide di Voltaire o Jacques il fatalista di Diderot), e a tratti tende a diventare un libro sul Settecento, un romanzo storico in cui attorno al protagonista si muove la cultura dell’epoca, la Rivoluzione francese, Napoleone…” Questa parte della prefazione di Tonio Cavilla del Barone Rampante di Italo Calvino è la motivazione, l’unica motivazione che posso dare del collegamento tra Cosimo e Candide. “‘Racconto filosofico’ però non è. Voltaire e Diderot avevano una tesi intellettuale ben chiara da sostenere attraverso l’umore delle loro invenzioni fantastiche, ed era la logica della loro polemica che sosteneva la struttura del racconto; mentre per l’Autore del Barone Rampante viene prima l’immagine, e il racconto nasce dalla logica che lega lo sviluppo delle immagini e delle invenzioni fantastiche. E non è neppure ‘romanzo storico’. Questi aristocratici e questi ‘illuministi’, questi giacobini e questi napoleonici, sono soltanto figurine di un balletto. Anche gli atteggiamenti morali (l’individualismo fondato sulla volontà, che anima la vita dell’Alfieri) qui ci ritornano come caricaturati da uno specchio deformante.” Non ci sono parole più giuste di quelle dell’Autore stesso per giustificare un libro, se mai ce ne fosse bisogno. Qui si parla anche di Rivoluzione francese e Napoleone, ed i sovrani che ho citato all’inizio di quest’avventura sono leggermente antecedenti. Ma gli ideali illuministi hanno guidato la Rivoluzione, quindi va bene così. Cosimo, scegliendo di salire sugli alberi per scappare dalle pressioni della sua famiglia, prende una decisione simile a quella di Voltaire quando scappò da Parigi per evitare di essere arrestato. Ma il vero collegamento tra questa storia, scritta non nel Settecento ma sul Settecento, e la storia del XIII secolo, è la famiglia di Cosimo. La madre, Konradine Von Kurtewitz, era la figlia un generale elle truppe di Meria Teresa d’Austria, e la famiglia del padre di Cosimo era una delle poche ad aver sostenuto gli austriaci all’epoca della battaglia di Genova. Ci si addentra, a questo punto, in quel settore di storia militare che affronta le guerre che portarono alla grande decadenza dell’impero asburgico. Se Carlo V aveva sotto il suo dominio, fino a quando non decise di abbandonarlo per chiudersi in un più tranquillo convento con la sua biblioteca, un impero su cui non tramontava mai il sole, che abbracciava l’Europa e le Americhe, ora, anche a causa della sconsiderata politica matrimoniale esclusivamente tra consanguinei per mantenere vivo il DNA asburgico ma che causò innumerevoli problemi e la comparsa del famigerato ‘mento asburgico’, la grande famiglia si ritrovò con il povero Carlo II, pieno di problemi ma privo di eredi. L’Europa si vide così in un batter d’occhio a dover combattere tre guerre di successione per tre troni diversi tutti legati alla famiglia Asburgo, più una guerra durata Sette anni per decidere chi, alla fin fine, dovesse governare in Austria. 

“Graziosissimo Sovrano, con la più profonda sottomissione dedico a Vostra Maestà un’Offerta Musicale, la cui parte più nobile proviene dalle Sue auguste mani. Con reverenziale piacere ricordo ancora la particolare sovrana grazia con la quale, tempo fa, durante una mia visita a Potsdam, Vostra Maestà si degnò di eseguire alla tastiera il tema per una fuga, ordinandomi di svilupparla subito alla Sua augusta presenza. Fu mio deferente dovere ubbidire al comando di Vostra Maestà. Tuttavia mi accorsi che, in mancanza della necessaria preparazione, l’elaborazione non avrebbe potuto essere quella che un tema così eccellente avrebbe richiesto. Pertanto giunsi alla conclusione, e subito me ne assunsi l’impegno, che era necessario elaborare in modo più approfondito quel tema veramente regale per farlo conoscere al mondo. Questo proposito è stato realizzato secondo le mie capacità e non ho altra intenzione se non quella irreprensibile di celebrare, benché solo in un piccolo punto, la gloria di un monarca la cui grandezza e forza tutti devono ammirare e venerare, tanto nelle scienze della guerra e della pace, quanto, in maniera speciale, in quelle della musica. […] Lipsia, 7 luglio 1747.” Con queste parole Johann Sebastian Bach invia la prima copia dell’Offerta Musicale a Federico II di Prussia. L’opera di Bach, come innumerevoli altre, è un prodigio di logica e melodia, per il quale non possiamo trovare definizione migliore se non nel titolo di un romanzo di Jane Austen Ragione e Sentimento. E già solo nella dedica, per quanto pomposa, troviamo delle caratteristiche peculiari del sovrano, esperto nelle “scienze della guerra e della pace”. Federico II, infatti, ha portato la riforma sociale che Pietro il Grande aveva compiuto in Russia a livelli molto più militari. Invece di limitarsi ad azzerare i privilegi dei nobili e creare una scala sociale basata esclusivamente sulla meritocrazia, come nelle tavole dei ranghi, creò un vero e proprio esercito nel suo regno, dove ognuno doveva stare su di un preciso gradino nell’ordine militare. Questa rigidità di Federico risale forse ai tempi della sua infanzia non particolarmente felice (la famiglia Hohenzollern, ma soprattutto il padre di Federico era nota come estremamente rigida), anzi, piena di sofferenze, che lo portarono a diventare la persona insopportabile che ci riporta o le cronache. Nasceva però come un grande amante delle arti, passione che si mantenne viva nel suo animo quando decise di far edificare la reggia di Sansouci. Era anche un buon musicista, pratico soprattutto di flauto e tastiere (organi, clavicembali…). E proprio a Bach ordinò di comporre una fuga su un tema regio, ideato dal re seduta stante. Ma qual è la reale rilevanza dell’Offerta? Bene, innanzitutto è fatta da pura logica: ogni parte è reversibile, da suonare a specchio, al contrario, perfino a testa in giù, e in ogni caso si riesce perfettamente ad armonizzare con le altre parti. È composta da fughe, canoni, ricercar, moti perpetui ed una sonata in quattro movimenti. Gli strumenti richiesti per l’esecuzione sono, solitamente, violini, viole, basso continuo (violoncello, viola da gamba o violone), flauti e un clavicembalo. Ovviamente nei secoli la strumentazione è variata per adeguarsi ai gusti del pubblico. Oggi, tuttavia, si preferisce aderire al modello che Bach indicò nell’originale.  Ma non è tutto: alcuni movimenti sono indicati con degli indovinelli in latino, e non esiste una soluzione univoca per la loro esecuzione. Ci si potrebbero perdere ore nell’analizzare questo capolavoro, ma spostiamoci leggermente perché il fenomeno che citavo prima della combinazione tra ragione e sentimento nella musica di Bach è stato oggetto di studio da parte del rifondatore della filosofia occidentale: Cartesio. Nel Compendium musicae, Cartesio tenta di spiegare perché la musica riesce a commuovere. Analizzando durata e tono, con un semplice ragionamento matematico, Cartesio conclude che sono proprio le relazioni matematiche, le serie (geometriche od armoniche) a definire il carattere della musica. Tra i molti fattori legati alla piacevolezza del suono, vi è anche l’elemento visivo, per cui una partitura semplice da vedere è anche piacevole da sentire. Guardando però molte partiture di brani celeberrimi, ci si rende conto che non sempre questo pensiero si traduce in pratica, poiché, molto spesso, anche le melodie più semplici e note hanno una partitura non immediatamente intellegibile. Se infatti volessimo prendere in esame il caso di Bach, allora arriveremmo all’antitesi più totale con il principio enunciato da Cartesio. 

Volendo sottolineare ancora un altro aspetto della cornice in cui ci troviamo, possiamo citare la diatriba tra giansenisti e gesuiti, non molto presente nella vicenda di Bach, quanto viva in Candide e nel Barone rampante. Se infatti Candide quasi viene cucinato in Sudamerica per essere stato creduto un gesuita dalla popolazione locale, il padre di Cosimo odia i gesuiti dal profondo del cuore, per una questione di terreni e proprietà, tanto da scegliere l’abate Fauchelafleur, “rigido” e distrattissimo giansenista, come precettore di Cosimo e suo fratello Biagio. E a Port-Royal, alveare principale dei giansenisti, insegnarono molti filosofi che segnarono il Sei-Settecento, come, ad esempio, Blaise Pascal. Nel 1700 invece, i gesuiti non ebbero vita facile, come si deduce magnificamente nel film Mission, dove fino all’ultimo padre Gabriel, Rodrigo e i Guaranì della missione difesero la loro libertà di non far del male a nessuno, dando la possibilità di una vita dignitosa a centinaia di indigeni. Purtroppo andò molto male, sia nel film che nella realtà tanto che, per un periodo, i gesuiti furono anche sciolti dal papa. 

È difficile trovare le parole giuste per concludere un discorso così complesso, come credo sia stato difficile per Bach trovare gli ultimi accordi delle sue innumerevoli opere. Leggere libri del secolo o sul secolo, di qualsiasi si tratti, è forse il miglior modo per conoscerlo, soprattutto se figli della penna di personaggi che hanno reso l’umanità di tutti i secoli illustre, con il loro pensiero, ma soprattutto con la loro libertà di pensiero, che mai passerà di moda e mai sarà scontata. 

Bibliografia

I. Calvino, Il Barone Rampante, Oscar Mondadori,  Milano 1993

Voltaire, Candide ou l’Optimisme, Feltrinelli, Torino, 1994

Cartesio, Compendium Musicae, Stilo Editrice, 2008

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