Autore originale del testo: Luciovalerio Padovani
Url fonte: https://www.commo.org/post/70880/che-partito-vogliamo-intervento-assemblea-provinciale-full-version/
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di Luciovalerio Padovani 13 luglio 2016
SI – Intervento assemblea provinciale Genova (full version)
L’intervento di Marco Furfaro, che condivido fino in fondo, ha precisato bene quali sono le priorità da perseguire dal punto di vista politico, la prima tra tutte è quella di definire una “identità distintiva”, una propria autonoma visione del mondo, della società che vogliamo e dell’utopia a cui vogliamo tendere. Definita una propria soggettività distintiva, tutto il resto viene di conseguenza, compresa la questione delle alleanze, che sono un mezzo e non certo un fine.C’è grande confusione sotto il cielo, ma le analisi tra compagni, soprattutto dopo l’ultimo voto, cominciano a farsi convergenti. Ci troviamo di fronte alla fine di un’illusione, non ci sono “praterie a sinistra”, non è affatto scontato che il voto in uscita dal PD ci premi solo per il fatto che esistiamo (va ai 5stelle ed, in misura ancora maggiore, all’astensione), non solo non ci scolliamo dal 4% (quando va a bene) ma in più situazioni corriamo il rischio di un’ulteriore arretramento.
La cosa più preoccupante è che il fenomeno si presenta, per certi versi, come “strutturale”, perché si associa al dato di uno scarso insediamento sopratutto nei territori dove sono maggiormente presenti i ceti popolari che, in teoria, sono quelli che dovremo rappresentare. La “mutazione genetica”, a partire dai consensi raccolti, non è avvenuta solo nel campo del Partito Democratico ma ha riguardato significativamente anche noi.L’analisi di dettaglio tradisce l’evidenza che non riusciamo a intercettare il voto delle periferie e neppure quello dei ceti medi che si stanno impoverendo, non riusciamo a farci interpreti della rabbia e della sofferenza che questi settori della popolazione esprimono e a rappresentare in modo convincente i loro interessi. Il voto che arriva a noi sembra essere sopratutto quello dei ceti medi “illuminati” (e fortemente scolarizzati). Rischiamo di rimanere confinati nel ruolo di nicchia di una “sinistra di opinione”. Se qualcosa non cambia, e in fretta, siamo destinati a rimanere del tutto marginali.
L’invito all’assemblea nazionale del 16 parla di un percorso costituente che ha due gambe: la prima è quella della partecipazione (e della democrazia) che rinvia alla forme ed alle pratiche dell’organizzazione, la seconda è quella del programma (e della visione) che rinvia alla cultura e ai valori. Elementi che come dirò dopo, sono, secondo me, fortemente correlati, visto che il nesso fra organizzazione e cultura, come dicono gli esperti di management strategico delle organizzazioni, è molto forte.Proprio per questo, il taglio che volevo dare al mio intervento è più di tipo organizzativo che politico in senso stretto.
Oggi siamo qui per porci una domanda: che partito vogliamo? Di cosa abbiamo bisogno per avviare un serio percorso costituente? Senza dubbio abbiamo bisogno di luoghi di confronto e di dibattito, di analisi ed elaborazione, di “pensiero lungo” e di processi decisionali trasparenti. Se questo è vero, la prima cosa di cui abbiamo bisogno è un cambiamento radicale nelle forme, nel metodo e nelle concrete pratiche organizzative.Una cosa è certa, da soli non bastiamo. Se vogliamo essere una sinistra che non si accontenta del suo attuale posizionamento, che si candida addirittura a governare o, almeno, ad influenzare significativamente il corso degli eventi, dobbiamo attrarre consenso e nuove energie. Ma perché una persona di buon senso dovrebbe aver voglia di condividere un gruppo come il nostro, rimanerci e dedicarci una parte del suo tempo? Come si genera la “militanza” di cui abbiamo bisogno? Dobbiamo mettere in campo modalità più aperte ed inclusive, in grado di attrarre nuove risorse e di esercitare un maggiore “appeal”, ricostruire legami di comunità.
Le persone ci condividono solo se hanno la sensazione di poter contare, se sentono che i loro interessi sono tenuti in debita considerazione e correttamente rappresentati. Chi ci incontra deve aver voglia di tornare ad incontrarci sapendo di trovare, nelle nostre sedi, nelle nostre riunioni, buoni motivi per continuare a farlo. Altrimenti si fa la fine di quei gruppi di Facebook in cui si è tra “amici”, certo, ma alla fine si rischia di essere totalmente autoreferenziali, confinati in un “ghetto tra uguali”, di starsela a raccontare tra pochi eletti. Non ce lo possiamo permettere. Per contrastare questa deriva, bisogna ripartire da un diverso modello di organizzazione, da un diverso “clima” organizzativo.Il primo “fattore di successo” (o di insuccesso) per il futuro partito sarà, dal mio punto di vista, proprio la forma dell’organizzazione che deciderà di darsi ed il metodo con cui si faranno le cose. Bisognerà generare processi che favoriscano l’inclusione ed il coinvolgimento, fare di tutto per creare un clima accogliente, facilitante, in cui sia possibile a tutti e tutte di partecipare attivamente al confronto ed alla elaborazione delle idee, in sintesi, mettere in campo un’organizzazione fortemente democratica.
Per ottenere questo risultato però ci vogliono regole certe, che costruiscano una democrazia effettiva, strumenti, che favoriscano lo scambio di informazioni ed il dibattito, piattaforme, che garantiscano l’espressione delle posizioni dei singoli. Certo prima viene l’ascolto, il dialogo, il confronto, la mediazione e la sintesi, ma poi bisogna decidere e tutti devono avere la certezza di poter contare nelle decisioni.L’esperienza di “Rete a Sinistra” in Liguria è stata, in questo senso, illuminante, nata come “laboratorio politico”, con una forte orientamento all’apertura, con l’idea di mettere insieme, attraverso il dialogo ed il confronto, anime e culture diverse, si è presto trovata a diventare “cartello elettorale”, a quel punto sono calate sul territorio le (diverse) dirigenze nazionali che hanno imposto il loro punto di vista, le loro mediazioni e la loro entropia, tradendo, con i fatti, l’impostazione originaria.Vengo dal sociale, mi piacciono le organizzazioni a rete (non a caso sono tra i fondatori di “RaS”) perché le “reti” sono formidabili strumenti per mettere insieme risorse diverse, soggettività diverse. Da qui la metafora della rete e dei suoi nodi, si tratta di un modo, a volte vincente, di far cooperare soggetti diversi intorno ad un fine comune.
Tuttavia, proprio di fronte alle difficoltà che ha incontrato la “Rete”, nel suo percorso, ho cominciato a pensare che in fondo, piuttosto che pensare a una rete che si misura, tra mille difficoltà, con il compito impossibile di mettere insieme tutti i partiti-ni (e i loro dirigenti), sempre esposta al rischio di spinte centrifughe e, oggettivamente, condizionata (a dispetto delle intenzioni dei singoli) da un “pensiero corto” (perché legato alle continue scadenze elettorali), meglio sarebbe stato un “partito” in grado, però, di comportarsi come una rete.Un partito della sinistra, libero dalla schiavitù delle scadenze elettorali, che potesse permettersi il lusso di un “pensiero lungo”, un partito che, attraverso la capacita di far “cooperare le differenze” (e fare sintesi), potesse sul serio candidarsi a diventare una comunità di intenti e di azione, strategicamente orientata, in grado di superare la frammentazione, altrimenti sempre dietro l’angolo. Un “partito-rete”, in grado di mettere insieme ed organizzare mondi diversi. Siamo nel terzo millennio, si dice “partito” ma non necessariamente si declina come partito in senso novecentesco, caratterizzato da gerarchia, dirigismo e controllo, all’insegna del “centralismo democratico”, ma di una struttura che si auto-organizza, fortemente reticolare, leggera, piatta, partecipativa e democratica.Tuttavia, per permettersi un’organizzazione leggera, decentrata, a rete, non fortemente gerarchizzata e non correre il rischio di perdere l’identità (e frammentarsi alla prima occasione) è necessario che il coordinamento (ancor più necessario) si eserciti in forme diverse da quelle tradizionali. Ciò può essere possibile solo se sono presenti forti meccanismi di partecipazione e di produzione di cultura condivisa, solo se c’è una “visione”, un sogno comune, in grado di tenere insieme gli obiettivi individuali con gli obiettivi dell’organizzazione e di generare una comunità a cui “appartenere”.
La sfida di Sinistra Italiana è quindi quella di identificare un percorso, tagliato su misura sul nostro contesto, in grado di costruire, non solo a parole, qualcosa di nuovo e diverso.Loris Caruso, in un articolo sul manifesto, dal titolo “le nuove forze che servono per la sinistra” fa un passaggio in cui analizza la sinistra che si afferma in Europa, sostenendo che ci troviamo in presenza di tre modelli: 1) Il primo, quello di Syriza, è un processo top-down (alto-basso), dove sono le organizzazioni di partito a mettersi insieme e a dare vita, gradualmente, a qualcosa (coalizione) di diverso ed inedito. Da noi l’ostacolo maggiore (e apparentemente insormontabile) per la realizzazione di un processo simile (Altra Europa) è sembrato essere proprio il comportamento “difensivo” dei ceti dirigenti. 2) Il secondo, quello di Podemos, è un processo bottom-up (basso-alto) costruito dal basso sulla spinta delle mobilitazioni popolari, il limite da noi è che non possiamo contare su movimenti di popolo a cui sostenersi. 3) Il terzo, è quello del partito laburista inglese (con il successo di Corbyn, diventato segretario) anche questo modello non sembra riproponibile da noi, il PD non è un partito riformabile, da tempo, è stata lanciata un’opa “ostile” e l’egemonia sul partito l’ha conquistata la vecchia democrazia cristiana.Cosa hanno in comune, però, le tre esperienze di successo citate? Certamente sono in grado di esprimere una narrazione coerente ed efficace, lo fanno con buona abilità mediatica, possono contare su una leadership autorevole e credibile, ma soprattutto fondano la loro iniziativa politica sull’attivismo civico. Si sostengono, si alimentano e si intrecciano con movimenti che gli permettono di mantenere una forte radicamento territoriale. Se ne deduce, che il secondo “fattore di successo” per un’organizzazione che vuole a conquistare nuovo consenso, sembra essere quello di ripartire dal territorio, dall’attivismo civico, dal solidarismo e dal mutualismo.Ora si fa presto a dire ripartire il territorio, sia perché servono molte risorse ma anche perché è difficile identificare luoghi in cui “incontrare il popolo”.
Quarant’anni fa, quando, da giovane, facevo politica, per conquistare il radicamento, si andava a volantinare davanti alle grandi fabbriche. Nella fabbrica “fordista” si potevano incontrare anche 20.000 lavoratori, che convivevano e producevano nello stesso luogo, luogo in cui poteva nascere ed alimentarsi quella che allora chiamavamo coscienza di classe. Ora la situazione del lavoro è completamente diversa, la produzione si è frammentata, con la fine della grande fabbrica anche i luoghi di lavoro si sono polverizzati, così come si sono ridotti gli spazi di socialità e di aggregazione, la gente si è ritirata ed isolata ed è difficile incontrarla. Come fare? Si stanno però generando nel paese, per fortuna, delle controtendenze all’isolamento, stanno nascendo sui territori movimenti spontanei di cittadinanza attiva che sembrano candidarsi come antidoto al ritiro privatistico imposto dal liberismo. Si stanno generando iniziative che partire dalla gestione comune, condivisa, di spazi pubblici, costruiscono forme di cooperazione e collaborazione tra cittadini in grado di produrre progettualità anche di un certo rilievo.
Il Comune di Genova (ma anche altri comuni) sta per deliberare il “Regolamento dei beni comuni urbani”, regolamento che dovrebbe favorire la gestione, in termini di funzione pubblica, di spazi del patrimonio comunale da destinare ad attività di aggregazione e socialità. Connettere, mettersi al servizio, umilmente, di questi processi, animarli, potrebbe essere una strada che ci permette di ricostruire quel legame con il “popolo” che è andato perso.C’è, a proposito di organizzazione sul territorio, una bella citazione di Togliatti che andrebbe ricordata più spesso. A chi gli chiedeva: Perché il PCI è diventato un punto di riferimento? Togliatti rispondeva: “Perché le sezioni comuniste nei rioni delle città, nei paesi, sono dei centri della vita popolare, dove vanno i compagni, i simpatizzanti e quelli senza partito, sapendo di trovarvi un partito, un’organizzazione che si interessa dei loro problemi e che fornisce una guida, un luogo in cui sanno di trovare qualcuno che li può dirigere, li può consigliare e può anche dare la possibilità di divertirsi se questo è necessario. Se non si fa così il cittadino andrà dall’assessore di turno o dal padrone a pietire i suoi problemi, a chiedere favori e non diritti e la sinistra non avrà ragione di esistere…”In più città del paese si sta affermando il movimento delle cosiddette “case di quartiere”, in Svezia esperienze analoghe non a caso, vengono ancora chiamate “case del popolo”. Credo che bisognerebbe ripartire proprio da qui, si tratta di un’opportunità da non lasciarsi sfuggire. La seconda pista da seguire, quindi, nella costruzione del partito è, secondo me, quella di capire di quali risorse disponiamo sui territori, di quanti uomini e quali sedi, un’idea potrebbe essere quella di creare luoghi accoglienti in cui le persone possono trovare non solo occasioni di dibattito e di confronto ma anche occasioni socialità e di svago.In conclusione, bisogna ricominciare da capo, se non da zero… dai circoli, dal territorio, dalle case del popolo… non può bastare una effimera alleanza elettorale (che pure non sempre si riesce a fare) perché si possa invertite la tendenza, ormai è evidente che le soluzioni adottate non funzionano e che, elezione dopo elezione, si ripete sempre lo stesso copione con il risultato di giocarsi anche quel poco di credibilità che ci resta e di generare disaffezione e demotivazione nelle ultime truppe che ci sono rimaste fedeli.
È necessario però parlarci chiaro, abbiamo bisogno, per ricominciare sul serio da capo, di una profonda “ristrutturazione cognitiva,” di un pensiero lungo, non schiavo del presente o della scadenza elettorale. C’è “vita a sinistra” solo se si recupera la “capacità utopica”, dove per utopia s’intende anche l’immaginazione di “luoghi di vita”, buoni, desiderabili, da realizzare.La sinistra, l’insieme delle forze sociali organizzate al servizio dell’uguaglianza tra tutti gli esseri umani, ha purtroppo sperimentato a sue spese la perdita di immaginazione e di capacità utopica. “Fare politica a sinistra oggi richiederebbe una costruzione faticosa e quotidiana che sa darsi tempi lunghi. Ci vuole tempo per ricostruire quello che una modernizzazione feroce e veloce ha divelto e distrutto, per darsi priorità e obiettivi in un mondo cambiato. E ci vuole modestia.” (A. Armeni). Pazienza, modestia e metodo, tre virtù che sembrano spesso assenti nella sinistra radicale.


