di Fiore, 28 marzo 2017
Perché esistiamo? La domanda se la pongono sia i mistici che i fisici. I primi se lo spiegano, i secondi no.
Ma l’insondabile ha un fascino tutto suo, capace di stimolare studi e fatiche di vite, generazioni, di studiosi, sperimentatori. Mentre ci occupiamo delle nostre facezie quotidiane c’è gente che con passione cerca di svelare il mistero. Detta in maniera semplice non dovremmo esistere perché la materia stessa di cui siamo fatti e di cui è fatto tutto ciò che ci circonda, dal gatto che si struscia sulle nostre gambe alle galassie distanti miliardi di anni luce, non dovrebbe esistere. Questo perché nell’istante della creazione, quello che chiamiamo big bang, materia e antimateria vengono prodotte in parti uguali, cinquanta e cinquanta. E materia e antimateria hanno il potere di distruggersi, secondo quel processo che prende il nome di annichilazione che ha come risultato la conversione di entrambe le masse in energia. Però, e qui sta il mistero, una parte di antimateria sparisce e consente a una quantità uguale di materia di sopravvivere, e questo è il motivo per cui esistiamo. Ma che fine fa quella parte di antimateria? Questa la domanda alla quale da molto tempo si cerca di dare una risposta.
Il pioniere di questa ricerca si chiamava Bruno Touschek, per sua sfortuna nato a Vienna nel 1921, dato che era ebreo. Riuscì a studiare comunque e anche a fuggire da un campo di concentramento, alla fine approdò a Roma, ottenne un posto all’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare e, nel 1960, propose di realizzare il primo acceleratore di particelle. Era ospite di una sua zia di nome Ada. Realizzò, con l’aiuto di altri fisici italiani, il primo acceleratore e lo chiamò AdA, Anello di Accumulazione. Il primo acceleratore al mondo nel quale si facevano collidere materia e antimateria (elettroni e positroni) e si studiava il prodotto delle collisioni per cercar di capire che fine facesse l’antimateria mancante. Il grado di difficoltà di quel progetto può essere descritto con un esempio: immaginate di lanciare due aghi, contemporaneamente, uno dall’Italia e uno dal Portogallo e di farli scontrare, punta contro punta, esattamente a metà strada.
E loro ci riuscirono, ora AdA è nel giardino dell’INFN di Frascati. Poi ne fecero uno più grande, e lo chiamarono Adone, e pure lui sta nel giardino. Infine fu costruito DAFNE, l’acceleratore ancora operativo.
Ogni anno l’INFN organizza una giornata di visite guidate, si chiama Open Labs, ed è possibile vedere queste meraviglie e seguire cicli di conferenze interessantissime. Ci sono stato in maggio e ho visto, e ho ascoltato. Dalla scoperta delle onde gravitazionali al racconto di 15 anni di lavoro sulla missione Rosetta narrati da uno degli scienziati che vi hanno preso parte. Dimenticavo, a Frascati c’è anche la prima antenna realizzata sul pianeta per cercar di scoprire le onde gravitazionali teorizzate da Einstein, funziona ancora e potrebbe rivelarle solo se si originassero all’interno della nostra galassia, ed è il posto più freddo del mondo, appena 0,1°C al di sopra dello zero assoluto.
Ho vissuto un’esperienza molto interessante, ma in bocca mi è rimasto un gusto amaro. Ho visto gente appassionata, fisici di prim’ordine che dedicano tutte le loro energie al loro lavoro, ma che risultati potranno mai ottenere con DAFNE i cui anelli sono lunghi 100 metri quando l’acceleratore del CERN di Ginevra è lungo 28 chilometri? E con quel cilindro di alluminio raffreddato al limite di cui ho parlato prima come faranno a competere con gli interferometri LIGO per cercare le onde gravitazionali?
La sensazione che mi è rimasta è di gratitudine per quelle persone che operano in una struttura che ormai possiamo considerare a metà tra una palestra e un museo, e di schifo assoluto per coloro che negli anni passati decisero di tagliare i fondi alla ricerca. Eravamo i primi al mondo e forse i nostri fisici ancora possono esserlo, ma se vogliono realizzare le loro aspirazioni non hanno che una strada: andarsene.
Adieu.


