Il Valore-Lavoro in Karl Marx

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Giovanni La Torre
Fonte: I Gessetti di Sylos

di Giovanni La Torre –  4 maggio 2018

I “gessetti di Sylos” n.  379: A proposito del bicentenario di Marx 

Come è noto quest’anno ricorre il bicentenario della nascita di Karl Marx (Treviri 1818 – Londra 1883), e quindi è l’occasione per parlare di lui e del suo pensiero.

Dopo essere stato molto di moda negli anni sessanta e settanta del novecento, soprattutto in occasione del ’68, si è assistito a una sorta di oblio, se non di condanna, con il riflusso che si è avuto a partire dagli anni a cavallo dei ’70 e ’80 che hanno portato alla svolta neo liberista e poi alla caduta del comunismo storico. Ma, come spesso capita, nei riflussi si butta via l’acqua sporca con tutto il bambino.

Marx è stato filosofo, economista e agitatore politico. Noi ci permettiamo di fare un piccolo bilancio solo del Marx economista, mentre lasciamo agli storici quello di agitatore politico, e ai filosofi quello di teorico del materialismo storico.

Le fondamenta del pensiero economico di M. poggiano sulla teoria del valore-lavoro che lui prese da Smith e Ricardo: se un paio di scarpe si scambia con due paia di guanti è perché per fare le scarpe occorre il doppio del lavoro necessario a fare un paio di guanti. Qualcuno potrebbe subito obiettare: ma c’è anche la materia prima (pelle) e poi sono intervenute anche le macchine, quindi nelle scarpe e nei guanti non c’è solo lavoro. Ma, a pensarci bene, sia il pellame che le macchine non sono altro che lavoro (manuale e intellettuale) svolto in precedenza, e così a ritroso fino ad arrivare al lavoro applicato alla natura, che è gratuita, per il pellame dagli animali e il ferro dalle miniere. Quindi il valore di ogni bene può essere ridotto, in ultima analisi, al lavoro incorporato. Da qui deriva la teoria dello sfruttamento di Marx secondo la quale, considerato che ai lavoratori viene dato come salario il minimo di sussistenza (storicamente inteso) e non tutto il valore dei beni prodotti, la produzione lascerebbe un “plusvalore” (rispetto al mero valore dei beni i sussistenza) di cui i capitalisti si approprierebbero.

Ma, ha avvertito lo stesso Smith che l’aveva scoperta, la teoria del valore-lavoro calza pienamente in un’economia basata sul baratto mentre scricchiola in un’economia monetaria. Perché? Perché (e qui riportiamo anche cose dette dopo da altri) in un’economia monetaria (di tipo capitalistico) gli scambi avvengono con la mediazione della moneta ed allora ad essere prevalente non è il concetto di “valore” ma quello di “prezzo”. E il prezzo viene determinato dalle imprese applicando un “tasso di profitto” sulle anticipazioni per capitale fisso e capitale circolante, e questo tasso (pur ammettendo che anch’esso non sia altro che un prelievo sul valore prodotto dai lavoratori) non sempre coincide con il “tasso di plusvalore” a livello di prodotto finito. Perché? Perché mentre il plusvalore è un’entità che potremmo definire “statica”, nel senso che è la differenza tra il totale lavoro (quello vivo e quello incorporato nelle materie prime e i macchinari) presente in un bene e il valore che viene riconosciuto ai lavoratori (salario = valore beni di sussistenza), il profitto è un valore “dinamico”, nel senso che dipende da quanto lavoro “incorporato” è presente nella produzione, in particolare nei macchinari, dato che ogni lavoro passato incorpora un profitto dovuto alle produzioni precedenti, entra cioè una variabile “tempo” nel prezzo. Quindi: i beni alla cui produzione hanno contribuito in misura maggiore il lavoro passato incorporato (macchinari) avranno un prezzo maggiore di quelli in cui è più presente il lavoro attuale, ovviamente a parità di lavoro totale.

Questa potenziale contraddizione tra valore e prezzo è cominciata ad emergere con Ricardo, il quale l’ha superata dicendo che quello che conta è la sostanza dei fenomeni (teoria del valore-lavoro) e non le singole situazioni concrete (prezzi). Marx invece, che era un cavilloso (altrimenti Il Capitale avrebbe avuto una dimensione inferiore) non si è accontentato di questa spiegazione e nel terzo libro de Il Capitale ha fatto tutto un ragionamento per concludere che alla fine la teoria del valore-lavoro e quella dei prezzi giungono alle stesse conclusioni a livello complessivo medio.

In particolare, considerato che il tasso di profitto non è altro che un modo diverso di chiamare il prelievo del capitalista sul valore prodotto dai lavoratori, esso coincide con il tasso di plusvalore a livello macro complessivo, solo che poi ci saranno beni con prezzi inferiori e beni con prezzi superiori a quelli determinabili con il tasso di plusvalore (e non di profitto), a seconda del livello di meccanizzazione della produzione rispetto a quello medio del sistema economico complessivo. Ma queste differenze sono tali che il livello generale dei prezzi complessivo coincide con quello della teoria del valore-lavoro e del plusvalore. Spero di essere riuscito a spiegare la cosa in modo semplice, perché mi rendo conto che il concetto è complesso.

È inutile dire che la discussione su questo tema non è mai finita, e ancora oggi continuano le polemiche soprattutto ad opera degli anti marxisti i quali impugnano la mancata coincidenza tra “valore” e “prezzo” di un singolo prodotto, ammessa dallo stesso Marx, per sostenere l’erroneità della teoria del valore-lavoro, alla quale i marxisti rispondono nel modo indicato dallo stesso Marx e da noi riportato sopra. Se posso dire la mia, non sottovaluterei quanto diceva Ricardo, la cui capacità di astrattezza molte volte sorprende trattandosi di un uomo di affari e non di un filosofo come erano Smith e Marx, se mai rivestendo la sua tesi con qualche concetto filosofico. E allora si potrebbe dire che il valore è il “noumeno” e il prezzo è la sua “manifestazione fenomenica”, la quale non è sempre identica al noumeno. E il noumeno è importante per capire l’essenza dei fenomeni.

Ma il “gessetto” è già troppo lungo e quindi riprenderemo il discorso la prossima volta.

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I “gessetti di Sylos” n. 380: A proposito del bicentenario di Marx – Seconda parte

Cerchiamo di proseguire nell’analisi del pensiero economico di Marx. Abbiamo visto la sua teoria del valore-lavoro, la quale pone il problema della trasformazione del valore in prezzo al quale Marx dà una soluzione. Abbiamo anche concluso che forse si può dire, sulla scia di Ricardo, che il “valore” è il noumeno e il “prezzo” è la sua manifestazione fenomenica, e le due cose possono anche non coincidere in un caso specifico. Resta però una questione che ci pare Marx abbia trascurato: la remunerazione del fattore “tempo”.

Effettivamente una produzione che è conseguita con macchinari deve riconoscere una remunerazione al fatto che per la produzione del macchinario si è utilizzato lavoro in periodi precedenti: è questo il tasso di interesse e/o di profitto, cioè la remunerazione del “capitale”. Di chi poi debba essere la proprietà di questo capitale e chi si debba appropriare della relativa remunerazione è una questione di tipo politico, non economico. In fondo si potrebbe dire che uno dei motivi che ha determinato il crollo delle economie comuniste è stato proprio che non veniva riconosciuto adeguatamente l’interesse sul capitale anticipato, e questo ha determinato sprechi consistenti. Ad ogni buon conto, per concludere si può dire che la teoria del valore-lavoro mantiene una sua validità a livello macroeconomico, nel senso che la produzione annua di una comunità è determinata dalla quantità di lavoro attivata, mentre a livello microeconomico abbisogna di tener conto della componente interesse sul lavoro precedente anticipato (capitale). Altra conclusione che si può affermare, è che la teoria del valore-lavoro è applicabile solo ai beni la cui produzione può essere estesa indefinitamente, mentre non è applicabile a quei beni non riproducibili, per esempio un’opera d’arte o i diamanti.

Detto doverosamente questo, bisogna aggiungere che è un peccato che la discussione sul valore non interessi più gli economisti e venga riservata a ristretti cenacoli. Essa invece è fondamentale per fare una discussione seria sulla distribuzione del reddito. Purtroppo per la maggioranza degli economisti contemporanei, dopo la svolta marginalista dell’ultimo quarto del XIX secolo, quello che è rilevante è il prezzo e non il valore, e il problema della distribuzione del reddito viene risolto automaticamente dal mercato attraverso la fissazione dei prezzi dei fattori produttivi (tra cui il lavoro). Si tratta evidentemente di una tesi che tende a difendere lo status quo capitalistico e la sua “razionalità”. Si badi bene, che la distribuzione del reddito non sia un fatto economico, come vogliono i marginalisti e i suoi seguaci attuali, ma storico e politico, non lo diceva solo Marx e i marxisti di oggi, ma anche Adam Smith, che viene considerato il padre dell’economia moderna o Stuart Mill, che è uno dei padri del liberalismo.

Prima di chiudere su questo argomento è il caso di riportare un’altra affermazione di Marx: “ogni scienza sarebbe superflua se l’essenza delle cose e la loro forma fenomenica strettamente coincidessero”. Effettivamente se l’uomo si fosse sempre attenuto a quello che appare e non si fosse posto la curiosità di sapere cosa c’è dietro, crederemmo ancora che è il sole a girare intorno alla terra. Allo stesso modo, ritenere che il prezzo racchiuda di per sé tutta la verità sul valore di un bene è attenersi alle apparenze, mentre è importante sapere cosa c’è dietro quel prezzo e su come si rapporti con gli altri prezzi, e questo significa indagare sul “valore”.

Purtroppo anche questa volta ci dobbiamo fermare perché gli argomenti sono di per sé pregnanti e quindi le parole si moltiplicano. Riprenderemo ancora.

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