di Fausto Anderlini – 14 agosto 2018
Dice bene la nostra Maga Maghella. Un partito che cambia il nome, come fu alla Bolognina, e si ricostruisce su scala regionale, in stile catalano, persino reinnestando il ‘socialismo’ nel proprio telos. L’intento sarebbe anche apprezzabile, e quanto meno c’è la presa d’atto definitiva del fallimento del Pd e della necessità di uscire dall’impasse. Senonchè tutta la proposta è argomentata in modo bislacco, così come nella dismisura è il contesto soggettivo. A cominciare dalla inaudita spregiudicatezza della proponente.
Come si fa a farsi promotori della rottamazione del renzismo dopo esserne stati tra i più agguerriti paladini ? Non avendo tema di elevarsi come sorta di rottamatrice per tutte le stagioni ? Anche fatta la tara alla giovane età e all’indole spietata, difficile figurare come credibili. Non dico fra la gente, ormai adusa a ogni corbelleria senza storia, ma nel mondo cui si rivolge. Più credibile sarebbe stata se avesse riconosciuto che che Bersani aveva ragione. Ma si è guardata bene da una ammissione che l’avrebbe umilmente riverginata. Ma ancor più infelici sono i richiami storici e comparativi coi quali la Gualmini ha farcito il panino.
Quasi ridicolo è il riferimento alla Bolognina. Laddove era in gioco un drammatico passaggio dal sacro al profano. Infatti dismessa la storica denominazione non sapemmo più come chiamarci, se non ricorrendo a metafore itineranti destinate ad arenarsi nel nulla (cioè nel Pd). Mentre qui è in gioco, tutt’alpiù, un nuovo logo utile per obnubilare ai clienti il patetico fallimento della ditta veltro-renziana. Totalmente improprio poi il richiamo alla Catalogna, il cui Partito Socialista, un ibrido federale, è stato fagocitato, non a caso, dagli indipendentisti. Non solo l’Emilia romagna non è nè la Catalogna nè la Scozia, dove sono in campo identità nazionali, ma non ha neppure una identità regionale ortogenetica saliente. Se l’Emilia aveva un identità (in quanto ‘regione rossa’) questa era conferita da una cultura politica (socialista e poi comunista) trascendente rispetto al luogo. Eclissata la quale, anche per la sciagurata e suicida rottamazione finale operata dal Pd renziano, non è possibile rifugiarsi in alcuna forma di lego-localismo. Perchè manca la materia prima.
Cionondimeno resta il problema di come fronteggiare la destra montante alle elezioni che incombono. La Lega è il vero pericolo. Il vero rischio è che la Lega raccolga gran messe dei detriti lasciati dal crollo della cultura ‘rossa’, proprio perchè, guarda caso, non è più una forza regionale ma nazionale. Per fronteggiarlo ci vorrebbe una tabula rasa pregiudiziale. Quello che mi immagino è questo: un appello, suonato come una campana a martello, che parta al di fuori di ciò che residua delle forze politiche, cioè lanciato da forze della cultura e realtà associative emblematiche del ‘modello’ sociale della regione con l’invito a dar corpo a una confederazione politica della ‘sinistra’ del tutto nuova sebbene abbia nella storia la propria ispirazione identitaria.
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“Per non sparire il Pd deve cambiare nome”
“Fin dalle prossime elezioni regionali il Pd deve cambiare pelle e volto. Anche il nome”. A dirlo alla Verità è Elisabetta Gualmini, vice presidente del consiglio regionale dell’Emilia Romagna.
“C’è un malcontento profondo nella nostra base – dice Gualmini -. C’è rabbia, incomprensione, delusione e scontento. Questa volta per salvarsi dal declino, non può bastare un semplice lifting”.
E poi aggiunge sull’accordo mancato con M5s: “Quella chiusura per me è stato un errore gravissimo. Abbiamo consegnato il Paese al connubio M5s-Lega, con i risultati che sono davanti agli occhi di tutti”. Per la Gualmini il Pd ha bisogno di un radicale nuovo inizio:
“Penso a un passaggio di rottura che sia paragonabile a quello di una nuova Bolognina. Ad un passaggio di discontinuità simile a quello della svolta di Achille Occhetto. Sono stata renziana, e lo ripeto, perché non amo i trasformismi, ma credo che ora si debba prendere atto che il Pd non è stato quello che immaginavamo”.


