di Fausto Anderlini – 22 dicembre 2018
D’Alema è l’unico, e forse l’ultimo, leader politico capace di usare le categorie e il metodo della scuola classica del materialismo storico. Nelle sue argomentazioni l’analisi politica è sempre ancorata all’analisi sociale e finalizzata a definire un indirizzo di ‘linea’, nel senso concreto, cioè leninista della parola, ovvero non meramente programmatico, piattamente politologico e men che meno banalmente ‘valoriale’. Sempre seguendo uno stile sintetico alieno ai fronzoli del culturalismo. Il suo intervento al convegno di Italiani-Europei, pure in un contesto dove non sono mancate le voci retoriche, è un esempio particolarmente riuscito di questa inclinazione. E per quanto mi riguarda convengo nel modo più totale con le sue conclusioni. Sebbene due punti dell’analisi mi lasciano non pienamente soddisfatto.
1. Il primo riguarda la critica rivolta alle forze del socialismo europeo, alla sinistra italiana, e dunque anche a sè stesso. L’errore sarebbe stato quello di mettersi alla coda dell’economicismo liberista, rinunciando alla critica del capitalismo. Il chè alla fine è senz’altro risultato vero, ma in causa di determinismi dotati di un loro spessore, non riducibili a una semplice ‘sbandata’ ideologica. Sicchè ho l’impressione che l’autocritica di D’Alema sia sin troppo generosa verso i critici. Un eccesso di senso di colpa. A partire dagli ‘ottanta’ i partiti di sinistra hanno visto forti ridimensionamenti del loro blocco sociale industriale mentre nella società il liberismo, dopo la rottura dell’89, ha conosciuto un consenso di massa a tratti travolgente. Le terze vie sono state il tentativo, a un certo punto anche riuscito, di agganciare le nuove dinamiche socio-culturali senza perdere il collegamento col proprio target sociale residuale. Il programma delle terze vie mirava infatti a un liberismo socialmente temperato, E’ così vero che anche quando al potere le sinistre hanno continuato ad essere investite da critiche relative ai loro gravami ideologici e sociali provenienti soprattutto dalla cultura radicale post-materialista. Cultura che a un certo punto è diventata egemone nella svolta liberista soppiantando l’armamentario del conservatorismo liberale. La stessa incapacità delle forze di sinistra di plasmare la costruzione europea in senso socialista, specie quando nei ’90 erano quasi ovunque al potere, si deve al tradizionale ancoraggio nazionale dei partiti, ognuno geloso di preservare le proprie reti nazionali neo-corporative. Quindi anche in tal caso, semmai, un difetto di ‘sovranismo’ anzichè di cosmopolitismo. E’ solo dopo la crisi del 2008 che gli errori hanno avuto connotati decisamente soggettivi, quando erano evidenti tutte le ragioni di una inversione di rotta. Se prima di allora errare era stato umano, dopo è diventato diabolico. Qui in Italia Bersani aveva intuito il passaggio di fase ma il suo tentativo di rettifica, ancorchè tardivo, è stato troppo timido sicchè si è aperta la strada a un ritorno delirante non di terza, ma di quarta via con il conseguente schianto della sinistra tutta considerata.
2. Il secondo aspetto riguarda il carattere degli orientamenti di massa oggi in atto. Secondo D’Alema nel ‘sovranismo’ oggi imperante traluce in modo confuso e distorto una domanda di partecipazione democratica giustificata dallo schiacciamento operato dalle forze impersonali della burocrazia europea e della finanza. Una tesi in qualche modo propria anche ai sostenitori del ‘patriottismo costituzionale’, sebbene per D’Alema lo scopo è di incanalare questa confusa energia ‘democratica’ nel rilancio di una nuova stagione europeista. Una visione che a me pare decisamente ottimista. Perchè il segno imperante è piuttosto quello di una domanda di protezione sociale e di sicurezza che sconta una latente (e forse non solo) sfiducia nella democrazia costituzionale come tale. Tendenza ‘hobbesiana’, ma si direbbe anche houellebecquiana, della quale il ‘patto’ giallo-verde è il naturale quanto transitorio depositario. Rinviando a una prospettiva nella quale la richiesta di protezione è contraccambiata come offerta di sottomissione. Da politico realista D’Alema sa che scalare il muro cercando qualche appiglio è politicamente cosa più sensata che sbatterci la testa contro. E tuttavia non sarebbe inopportuno avere una esatta percezione di quanto il muro sia alto.
[…e in effetti postulare la naturale immanenza nell’uomo di un’ansia di liberazione/partecipazione è un tratto illuminista del socialismo che non è certo andato perduto nelle terze vie. Anzi…sebbene il Pci, e più in generale il ‘comunismo organizzato’ avesse ben chiari i problemi posti dalle istanze dell’ordine e dell’obbedienza….]


