I vent’anni dell’euro

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Guglielmo Forges Davanzati
Fonte: Iuncturae

di Guglielmo Forges Davanzati

Nel 1999 fu introdotto l’euro, soli venti anni fa. L’Italia fu ammessa nel club dei Paesi fondatori nel 1998, a seguito di pesanti misure di restrizione della spesa pubblica e di aumento della pressione fiscale, ma comunque superò l’esame, sebbene non rispettasse il parametro del 60% del rapporto fra debito pubblico e prodotto interno lordo imposto dal Trattato di Maastricht. Da allora, dopo una prima fase sostanzialmente positiva, caratterizzata da riduzioni dei tassi di interesse e da crescita economica dei Paesi dell’Eurozona, a seguito della prima crisi del 2007-2008 è cresciuto lo scetticismo nei confronti del progetto di unificazione europeo.

A ben vedere, lo scetticismo avrebbe dovuto sedimentarsi negli anni novanta, anni nei quali doveva essere chiaro (e fu chiaro a soli pochissimi economisti italiani) che l’adozione di una moneta unica, in assenza di un coordinamento delle politiche fiscali, avrebbe determinato crescenti squilibri regionali e non avrebbe resistito a shock esogeni. E, nel caso italiano, ci sarebbero state ottime ragioni per non entrare subito nel club: se non altro perché l’Italia non era (e tantomeno lo è oggi, dopo decenni di tendenze recessive) sufficientemente robusta sul piano industriale per accettare la sfida della competizione all’interno dell’Unione.

L’Unione era infatti costruita su basi competitive al suo interno e con la condizione implicita che la sua crescita economica fosse demandata alla crescita della sua locomotiva – la Germania in fase di unificazione – secondo la tesi per la quale “la marea alza tutte le barche”: sarebbe cioè stato sufficiente lo sviluppo dei Paesi del Nord del continente per trascinare le aree economicamente più deboli. Alcuni economisti italiani nutrivano all’epoca molta diffidenza a riguardo, ma la loro voce rimase sostanzialmente inascoltata. Si fece osservare, in quegli anni, che i vincoli europei – proprio a partire dall’adozione di una moneta comune – avrebbero dovuto associarsi alla modernizzazione dell’apparato industriale del Paese.

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