Cuperlo: “Lavoro? come è stato possibile arrivare al punto dove siamo oggi – una società che vede sommarsi picchi di profitto e sacche sempre più diffuse di impoverimento”

per mafalda conti
Autore originale del testo: Gianni Cuperlo
Oggi non vorrei parlare di giustizia (lo fanno altri in abbondanza), ma di lavoro (e sarà un post lungo, ma non è obbligatorio arrivare in fondo).
Mi è capitato spesso di ricordare come nella tradizione della sinistra il radicamento sociale non è mai stato solo un fattore di consenso, era piuttosto un elemento di identità: “è il punto di vista di parte che fa del popolo un soggetto politico” si diceva.
Per capirci, gli operai non erano solo un serbatoio di voti: erano vissuti come una intelligenza sociale in grado di guidare la società verso una progressione di diritti, di libertà.
Senza questo non si capisce cosa ha rappresentato l’orgoglio operaio.
Il sentirsi parte di una classe costretta lungo stagioni diverse a battersi per ottenere più tutele, diritti, salari più giusti, ma accompagnando ciascuna di quelle rivendicazioni con una consapevolezza e coscienza di sé (sotto il profilo individuale e collettivo).
Perché ricordarlo?
Per più motivi, basterebbe però il fatto che tre mesi fa abbiamo visto per giorni la foto bellissima di una ragazza, madre giovanissima, risucchiata da un macchinario che avrebbe dovuto bloccarsi per impulso di una fotocellula che non ha funzionato.
All’inizio di giugno dinanzi ai cancelli della Fedex di Piacenza (qui sopra ne abbiamo scritto), un gruppo di guardie private assoldate dall’azienda ha malmenato una trentina di operai che stavano facendo un picchetto notturno.
Antefatto dell’episodio più tragico, una settimana dopo.
L’uccisione di un sindacalista travolto da un autista, anche in questo caso a margine di un picchetto promosso per chiedere il rispetto delle norme contrattuali in un settore tra i più esposti a forme di nuovo sfruttamento di lavoratori, in largo numero immigrati.
Volendo, questa specie di Spoon River del lavoro povero trova nel giovane bracciante, anche lui immigrato, a cui il caldo e la fatica hanno fatto scoppiare il cuore l’espressione più assurda di un tempo storico (il nostro) dove una potenza tecnologica senza precedenti convive con le forme di un nuovo schiavismo.
In questo senso il riferimento alla logistica non è casuale, così come non sono un caso i 152 operai della Gianetti Ruote in Brianza licenziati con un messaggio telefonico da una multinazionale che rilevando lo stabilimento aveva assunto ben altri impegni.
Così come non è un caso la notizia di ieri (ad aprirci il giornale stamane è solo Il Manifesto): 422 dipendenti della Gkn di Campi Bisenzio messi in mezzo alla strada con procedura di licenziamento collettivo da parte di una multinazionale dell’automotive.
Come vogliamo chiamarla una procedura del genere?
Banditesca?
Tanto più che solo poco tempo fa erano stati effettuati nel sito di Firenze investimenti cospicui in nuovi macchinari: a conferma che l’azienda vuole delocalizzare la produzione (anche se non è dato sapere dove).
Qui davvero l’impressione è che evocare il rapporto coi corpi intermedi (a partire dai sindacati) rischia di essere un impegno scritto sulla sabbia.
Non sono i soli episodi, anche se la brutalità della tempistica li porta al disonore della cronaca.
Ora, come voi io so che questo “governo dei migliori” è sostenuto da una maggioranza ibrida.
E so, come voi, che Mario Draghi è una personalità dal prestigio fuori discussione (un fuoriclasse che l’Europa ci invidia).
Questo certamente aiuta l’Italia in una stagione dove siamo chiamati a dimostrare con azioni e riforme coerenti di poter accedere (step dopo step) alle risorse finanziarie in arrivo dall’Europa.
E però credo sia altrettanto evidente che dentro questa maggioranza convivono posizioni opposte (ad esempio sulla modalità con la quale gestire lo sblocco dei licenziamenti) con alcune forze (dalla Lega in giù) assai sensibili alle richieste di Confindustria e altre (tra cui noi) molto più attente alle conseguenze drammatiche di una nuova emergenza sociale.
Lo stesso accordo chiuso in una decina di righe, poco meno, sulla modularità dello sblocco dei licenziamenti (che di fatto fa appello alle parti sociali a convergere su una raccomandazione, ma fuori da una cornice di certezza del diritto) dovrebbe spingere a una riflessione.
Il sindacato sta facendo la sua parte, ma anche rispetto a questo è bene rivendicare una autonomia della politica: e allora benissimo la posizione unitaria che rivendica una legge sulla rappresentanza e un nuovo statuto di tutti i lavori, ma penso sia altrettanto giusto che in quello statuto trovi spazio una legge sul salario minimo.
Potremmo ragionare nello stesso modo sulla riforma fiscale, sul capitolo della formazione, di una riforma del welfare che la pandemia ha dimostrato inadeguato e inefficiente. Ma ci siamo capiti.
Se le cose appena dette valgono da scenario, forse è possibile aggiungere due cose.
La prima è come sia stato possibile arrivare al punto dove siamo oggi (nel senso delle contraddizioni di una società che vede sommarsi picchi di profitto e sacche sempre più diffuse di impoverimento).
La seconda è cosa si debba fare da subito per reagire a questa condizione.
Partiamo un po’ più da lontano e lasciatemi riprendere un vecchio adagio di Tony Judt: “L’egoismo è il materialismo non sono aspetti intrinseci della condizione umana. Gran parte di ciò che oggi appare “naturale” risale agli anni 80: l’ossessione per la ricchezza, il culto della privatizzazione e del settore privato, le disparità crescenti fra ricchi e poveri”.
E seguiamolo ancora per un tratto in quel suo ragionamento su di un “mondo guasto” (almeno da quando una particolare ideologia ha scelto di renderlo tale).
“Nessuna società può essere florida e felice se la grande maggioranza dei suoi membri è povera e miserabile”: questo non è Marx, ma Adam Smith.
Il punto è che “Dalla fine del XIX secolo agli anni ‘70 del Novecento, le società avanzate dell’Occidente sono diventate tutte, progressivamente, meno disuguali. È accaduto grazie alla tassazione progressiva, ai sussidi pubblici per chi partiva dal fondo, ai servizi sociali e alle tutele contro i colpi della sorte: diciamo che le democrazie moderne si stavano liberando dal problema degli eccessi di ricchezza e di povertà”.
Bene, negli ultimi trent’anni noi abbiamo sacrificato tutto questo.
Negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, gli epicentri dell’entusiasmo per il capitalismo senza regole, sono riaffiorate manifestazioni sfrenate di privilegio privato è indifferenza pubblica.
Nel Regno Unito ci sono oggi più minori in povertà che in qualsiasi altro paese dell’Unione Europea.
C’è stato un tracollo della mobilità intergenerazionale.
Tutto questo per dire che cosa?
Per dire che in poco più di 10 mesi il mondo ha conosciuto una perdita di reddito pari a 250 miliardi di dollari (nel 2008 erano stati 100 miliardi in due anni).
Con il dettaglio (si è accennato) che la crisi prodotta dalla pandemia non è il risultato di una bolla finanziaria.
Questa crisi è figlia della paralisi delle persone: della necessità di un loro isolamento.
Il che ha innescato un paradosso: che in termini finanziari il vertice della piramide si è arricchito come mai in passato (l’ho scritto e lo riscrivo: nell’ultimo anno le 500 persone più ricche sulla terra hanno visto il loro patrimonio aumentare di 1.800 miliardi di dollari). Ma allo stesso tempo, quello stesso modello ha creato 150 milioni di poveri estremi.
La conseguenza per noi (per la nostra parte) è riconoscere che questo capitalismo non può essere il mercato, inteso come lo strumento per l’allocazione più efficace delle risorse.
Ma dire questo significa entrare in urto con il pensiero egemone degli ultimi 30/40 anni.
Significa riconoscere che il mercato ha bisogno di una dimensione pubblica, di una giustizia sociale, che questo modello di capitalismo (e questa destra politica) semplicemente non sono in grado di garantire.
Ecco perché quella che stiamo conoscendo, che stiamo vivendo, non è una parentesi dentro il processo lineare della storia.
Al contrario, è uno scarto decisivo.
E confondere una parentesi con uno spartiacque è sempre un rischio (nel senso che in passato scambiare l’una cosa per l’altra ha determinato guasti seri).
Perché poi, se dici parentesi pensi che tutto tornerà come prima, mentre noi non dobbiamo e non possiamo ripristinare il modello di società e di economia che ha generato la pandemia.
Anche per tutto questo prevenire la rabbia sociale (che da sempre la storia ha legato a epidemie e carestie) diventa la priorità.
Sapendo che nelle proteste c’è un disagio vero: di pezzi di società che non reggono più (vite di scarto: lavoratori anziani espulsi e giovani e donne precarizzati secondo una logica che toglie loro la dignità).
E allora è evidente che a servire sono soprattutto nuove lenti.
In fondo, lo slogan che le destre hanno usato spesso negli anni ’90 e Zero negava esattamente quella premessa.
L’acronimo TINA (l’ennesimo anglicismo per dire che non c’era alternativa) doveva precisamente conformare l’azione pubblica – la sfera delle culture politiche – all’accettazione di un dato immodificabile dei processi che si erano messi in atto.
La Storia (con la maiuscola) prendeva quel verso e la massima aspirazione che la politica (e la sinistra) potevano coltivare era di ammorbidire gli spigoli più urticanti di quelle disuguaglianze.
Il risultato è stato che la politica ha rimosso una verità: l’importante non è quanto ricco sia un paese, ma quanto sia disuguale.
E questo è tanto più vero perché le riduzioni delle diseguaglianze trovano conferme in sé stesse.
Più uguali diventiamo, più uguali ci convinciamo di poter diventare.
All’inverso, trent’anni di disuguaglianza crescente ci hanno convinto che la disuguaglianza sia una condizione naturale della vita e che ci sia poco da fare al riguardo.
Magari oggi non lo capisce Salvini, ma ieri lo aveva capito benissimo Tolstoj: “Non ci sono condizioni alle quali l’uomo non possa assuefarsi, specialmente se vede che tutti coloro che lo circondano vivono nello stesso modo”. (questa è Anna Karenina).
La realtà è che non potendo più svalutare la moneta si è deciso di svalutare il lavoro, e svalutando il lavoro si è pensato di poter ridurre la “persona” a un codice, come quello a barre dei prodotti, che donne e uomini (concepiti sempre più come “corpi” a disposizione di “capi”) si incaricavano di gestire.
La vicenda che citavo della logistica con il ricatto di algoritmi che dettano i ritmi della produzione e persino i bioritmi della vita di chi lavora (la bottiglietta appresso dove fare la pipì) è un po’ la punta di questa degenerazione che investe i rapporti di forza dentro i luoghi della produzione e distribuzione, ed è anche il frutto di una concezione della società, dell’economia, e insisto, della dignità di ciascuno.
Solo cenni, adesso il tema è come reagire?
Il governo deve agire imponendo al tavolo di confronto una mappa precisa delle situazioni di rischio e degli interventi immediati per garantire tutele e salari in linea col rispetto dei principi scolpiti in Costituzione e dallo Statuto dei lavoratori (Statuto che deve essere calato concretamente nella realtà di un mercato che non è più quello di mezzo secolo fa, ma neppure di 5 o 10 anni fa).
Contrattare l’algoritmo (uso la formula dell’ultimo congresso della Cgil: vuol dire orari, ritmi, condizioni di lavoro).
L’altra emergenza, anche quella già citata, è la fine del blocco dei licenziamenti.
Bisogna che il governo vigili sui diversi comparti favorendo tutti gli interventi di supporto a quei segmenti che rischiano di essere più penalizzati.
In altri termini rendere meno conveniente il licenziamento rispetto all’utilizzo degli ammortizzatori gratuiti previsti nel decreto Sostegni bis.
Agire presto e bene è la priorità dinanzi a quello che Landini giustamente ha definito uno “sgretolamento sociale” con la perdita di ancoraggi della solidarietà.
Il punto per noi è respingere il ricatto di una “guerra tra poveri”.
Perché il conflitto – il vero conflitto – è da ricondurre alla sua natura: quella segnata dai rapporti di forza di datori di lavoro che sfruttano altri lavoratori e lavoratori che respingono quel ricatto (“o lavori alle mie condizioni o sei fuori”).
Insomma, c’è una grande e giusta battaglia di autonomia, dignità, emancipazione, che va condotta.
E la sinistra in questa prova deve ritrovare sé stessa.
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