Referendum, una sveglia per gli illusi sul “popolo sovrano”

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Alessio Mannino
Fonte: La Fionda

Referendum, una sveglia per gli illusi sul “popolo sovrano”

Che cosa insegna l’esito di questi referendum?

Conta chi, o contro chi, si promuove il voto. Il contenuto è secondario, e non si distingue un’elezione (in cui si dà una delega in bianco per il Parlamento o altri organi elettivi) da un referendum (in cui invece ci si esprime con un sì o con un no, nella più pura forma di democrazia diretta).

In ordine di importanza, la prima causa dell’astensione è stata la mancanza di credibilità dei suoi organizzatori. Ovvero la CGIL, considerata tutt’uno con il PD e la “sinistra” (mentre Radicali, +Europa, Rifondazione Comunista non sono stati neppure considerati, per la loro inconsistenza mediatica e politica). Il merito dei quesiti ha scontato questa pecca originale, che deriva da decenni di auto-affondamento delle proprie ragioni storiche da parte di un centrosinistra colpevole di aver dato l’avvio legislativo alla precarietà (pacchetti Treu, 1997, ampliati poi dal centrodestra con la legge Biagi-Maroni, 2003), con un sindacato “rosso” che, pur avendo mantenuto una linea più critica, ha abbracciato il metodo della concertazione.
L’astensionismo che ha fatto davvero male, in questa tornata referendaria, non è stato né quello fisiologico di destra, scatenato specialmente da una proposta di abbreviare i tempi della cittadinanza agli stranieri, completamente sfasata rispetto alle urgenze del dibattito, né quello, divenuto anch’esso normale, del rifiuto a priori della partecipazione al voto, che via via si è fatto sempre più stabile (alle ultime europee ha votato solo il 48% degli aventi diritto — vedremo alle prossime politiche — posto che l’astensione è perfettamente legittima e più che comprensibile).
No, quello che ha morso di più è stato il non voto di chi avrebbe avuto buoni motivi per dire la propria, cioè il bacino elettorale di sinistra. Significa che, a parte le truppe mobilitate dall’organizzazione sul territorio della CGIL, quella che si chiama “opinione pubblica” di sinistra ha confermato di essere disaffezionata, scettica, delusa, disincantata e impermeabile al richiamo della tribù. Si raccoglie quel che si semina. O che non si semina.

La seconda causa, più profonda, risiede in un processo di lunga durata giunto ormai a maturazione: la disintegrazione della coscienza sociale. Non solo, come si diceva un tempo, di classe: proprio sociale tout court. Grazie a quarant’anni di diseducazione di massa operata dall’individualismo di marca neoliberale (“non esiste la società, esistono solo individui”, Margaret Thatcher — che bruci all’inferno) è lo stesso legame sociale ad essersi sfaldato. E per una serie di oggettive ragioni: tramontato il “sol dell’avvenire” comunista, l’economia capitalistica ha vinto la guerra delle anime, ha conquistato non solo il portafogli ma anche i cuori e le menti, e la psicologia del denaro ha colonizzato l’immaginario, ha egemonizzato l’inconscio collettivo, facendo leva sugli istinti primari della psiche (invidia in primis, come confessava onestamente già cent’anni fa uno dei teorici più rigorosi del neoliberismo, Ludwig von Mises). Con la spinta della tecnologia, generatrice dell’effetto-bolla per cui ognuno è indotto a percepirsi isolato e in dovere di farsi “imprenditore di sé”, la socialità stessa si è disgregata. E tale disfacimento ha portato con sé la crisi radicale della politica: appartenenza, impegno, e la consapevolezza stessa del proprio interesse di categoria sono divenute parole vuote di significato reale.
Slegato dai suoi simili, privo di comuni pratiche di condivisione e di lotta, allevato al messaggio che ognuno deve farcela da solo, assunto più o meno inconsciamente il primato del privato sul pubblico, diffidente verso partiti e sindacati liquidati, non a torto, come coprotagonisti di una democrazia non più rappresentativa, anche il precario o il disoccupato è trascinato da una ripulsa permanente verso il “sistema” in quanto tale.
Non crede nichilisticamente più a niente e a nessuno, come del resto buona parte del “popolo” teoricamente sovrano. E non crede più nel valore del lavoro, che della dimensione sociale, in una società moderna, è sempre stato il collante – e questa, bisogna dire, non sarebbe neanche una notizia totalmente negativa, ma qui si aprirebbe un discorso sull’emancipazione dal lavoro che ci porterebbe troppo lontano.
Lo schiavo salariato (salariato poco e male) sogna di liberarsi dalla schiavitù divenendo a sua volta padrone o padroncino. È la vittoria certificata dell’ideologia della “libertà” sull’“uguaglianza”. Ed è soprattutto la conferma che di “fraternità” non si può nemmeno parlare.
La società è un morto che cammina, la politica un fantasma, e trionfa il conformismo dell’individuo tutto contento di preferire il mare al seggio elettorale.

La terza causa è più contingente, ed è stata la scelta suicida — anche se obbligata, una volta messa in moto la macchina referendaria — di andare lo stesso a referendum dopo la bocciatura, a gennaio, di quello che, nelle intenzioni dei promotori, avrebbe potuto accendere di più l’interesse popolare: l’autonomia differenziata. Pia illusione: in realtà, nessuno dei temi sottoposti alle urne, neanche l’autonomia, è stato o sarebbe stato “scaldato” da una discussione animata, sentita, infiammante come per altre tappe referendarie in passato.
Non solo perché la destra al governo, del tutto logicamente dal suo punto di vista, non ha avuto alcuna convenienza a stare al gioco, ma anche perché nell’ultimo anno, mediaticamente occupato dai conflitti internazionali, non è accaduto nessun fatto eclatante in grado di catturare e sensibilizzare l’attenzione di massa.

La quarta causa, ovvia, è stato l’effettivo boicottaggio di gran parte dei media, che tuttavia non potevano fare altro che riflettere l’indifferenza calcolata del governo Meloni e l’atteggiamento di seconda fila tenuto dalle stesse forze politiche del centrosinistra (Schlein e cespugli, per non dire di Conte, si sono ben guardati dal fare campagna attiva, certi com’erano che il raggiungimento del quorum sarebbe stato un miracolo).

La scena post-voto ci mette davanti agli occhi le macerie non già di una sola “sinistra” che da un pezzo non è più che una destra diversamente sfumata, ma della vitalità dell’azione politica in sé.
A smuovere la massa dal disinteresse generale, e a convertirne la rabbiosa frustrazione diffusa, possono essere esclusivamente il combinato disposto di eventi traumatizzanti più il carisma di soggetti percepiti come “nuovi”. O non collusi, comunque, con tutto ciò che richiama l’élite, il potere anonimo, il peso di uno Stato storicamente guardato come “nemico”.
Il positivo, in questo deserto, è che in potenza si aprirebbe uno spazio sconfinato per ricostruire da zero un’idea di mondo alternativa. A patto di ripartire da una minoranza creativa che, prima d’ogni altra cosa, si metta a ricucire un minimo di tessuto collettivo.
Il successo iniziale del primo M5S, deragliato poi come sappiamo, si dovette non solo all’impatto (carismatico, appunto) del Beppe Grillo d’antan e alla funzione di leadership d’opinione del suo blog, ma anche alla possibilità di riunirsi liberamente — e anche un po’ troppo anarchicamente — nei meetup nei quali confluivano i disillusi di tutte o quasi le sponde.
Fu un’occasione strapersa, ma che già in nuce indicava quello che, nella società della stanchezza, dell’ansia e della noia, è il bisogno represso per eccellenza: andare oltre il virtuale e sentire il calore di una comunità.
Noi che abbiamo tagliato da un pezzo gli ormeggi con lo schema destra-sinistra e navighiamo verso rotte ignote, non è alla massa che guardiamo oggi.
Piuttosto, in mancanza di un capo (e chiamiamo le cose con il loro nome!) e di una struttura di consenso, non possiamo che immaginare una contro-élite da formare.
Con la prassi: quante, fra le miriadi di associazioni e sigle “anti-sistema”, fanno scuola di politica, oggi? Si contano sulle dita di mezza mano.
Meno London School of Economics, e più Rome School of Politics. Più Gramsci (sia pur senza partito-Principe), meno Brancaleone.
In questo senso, l’amarezza dell’arci-prevista batosta referendaria suona come una sveglia, per chi si attarda ancora in certe illusioni da populismo terminale.
Com’è sempre stato, lo scontro è fra minoranze: la maggioranza segue.
Prima si abbandonerà l’ingenuità di sognare movimenti che radunano grandi numeri in poco tempo senza adeguata preparazione (l’errore grillino), meglio sarà.
Altrimenti l’oligarchia industrial-finanziaria e i suoi addentellati, che oggi si sfregano le mani nel vedere tre quarti della popolazione votante ridacchiare sui referendum — quelli sul lavoro, di civiltà minima — potranno dormire fra due guanciali per un altro secolo.

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