di Fausto Anderlini – 15 febbraio 2017
Con Bazzocchi stamani si commentava lo stato miserevole del Pd, costretto a seguire Renzi sul suo risibile percorso di guerra. E assieme l’ennesimo indecoroso spettacolo di una direzione che si aduna per acclamare le lunghe concioni del capo riservando agli oppositori un diritto di tribuna da esercitare nel sarcasmo della platea. Non c’è nessun meccanismo in grado di fermarne la corsa verso lo schianto.
Il Pd renziano con la grande campagna della rottamazione ha non solo divelto quel che restava dell’organizzazione allontanando volutamente centinaia di migliaia di iscritti e milioni di elettori. Ha persino vanificato l’ultima, oscura, ed estrema, riserva di regolazione: la congiura di palazzo ad opera di maggiorenti defilati nell’ombra ma custodi della continuità dell’organizzazione. Fungibile, come extrema ratio, magari agendo tramite sicari, per fermare un leader inadeguato e/o pericoloso che mette a repentaglio l’organizzazione stessa. Facendolo cadere. Ogni organizzazione che si rispetti ha dentro di sè questa scatola nera, coi suoi provvidenziali brutali esecutori materiali, che è la garanzia informale ultima della sua preservazione formale.
La mediazione di Orlando è debole, al punto da segnarne la disgrazia, e Franceschini, con Fassino al seguito ed altri ‘renziani accorti’, sono troppo deboli e pavidi per dar corpo a una ‘manovra’ dietro le quinte. Il Pd non ha più una organizzazione di partito capace di mediare una politica pluralista, non ha grandi vecchi nè giovani speranze. Ci sono solo Renzi e una massa di accoliti a lui legati dalla convenienza e da un rapporto patologico di identificazione.
Non s’era mai visto prima d’ora un segretario di partito (anche presidente del Consiglio) che facesse forza su un seguito privato extra-partito come le adunanze pretoriane della Leopolda (spacciate inverecondamente come nuova forma di Think Tank). Il Pd è diventato un partito personale, prosaico e pseudo-carismatico, cioè senz’altra missione che la preservazione del potere del suo capo. Adeguandosi, buon ultimo ma con inaudita applicazione, alle dinamiche post-democratiche. La Lega salviniana conserva pur sempre il nucleo dell’antica base territoriale. Forza Italia è evoluta da partito azienda a una sorta di monarchia ereditaria di tipo baronale. Il dispotismpo internautico di Grillo è pur sempre temperato da qualche forma di attivismo militante alla base.Il Pd ha invece assunto, di contro, una forma compiutamente e sistematicamente personalizzata. Era una possibilità inscritta nello Statuto redatto dal duo Veltroni-Vassallo – apprendisti stregoni – e sottovalutata dai membri del gruppo costituente. Una possibilità che allora appariva improbabile ma che una volta accaduta non prevede autocorrezioni. Gli organi collettivi – assemblea nazionale e direzione – sono fatti derivare per statuto dalla volontà elettorale che si esprime nelle primarie, mettendo iscritti e organizzazione fuori gioco. Cioè ove capiti vincente un capo plebiscitato da flussi anomali di sostegno, dalla sua stessa volontà.
Più che un presidenzialismo, una dittatura a base plebiscitaria. Sarebbe come se il presidente Usa, o quello della Francia potesse nominare da sè i membri del Congresso e del Senato. Un’aberrazione. Che si può vedere in streaming ogni volta che questa accozzaglia si riunisce a consesso. Nei congressi di partito, Renzi aveva raccolto una maggioranza relativa. Sommati Cuperlo e Civati avevano la maggioranza assoluta. Se l’Assemblea e la Direzione avessero rispettato queste proporzioni il potere monocratico del Leader avrebbe trovato in esse il suo limite. Come avviene in ogni democrazia a base presidenziale. Ma così non era previsto e Renzi ha potuto trapiantare negli organi una pletora di accoliti allineati nelle lista a suo sostegno. Da questa aberrazione un insieme di conseguenze necessarie: lo smantellamento dell’organizzazione, la fidelizzazione privata, il cerchio magico, la persecuzione e l’irrisione delle minoranze, il disassamneto del partito dal suo spazio politico, sociale e identitario. Infine la distruzione nel partito di ogni legame sociale basato sulla compartecipazione. E questa aberrazione, se ci pensiamo (ma lo avevamo già detto) la si voleva impiantare nello stesso corpo costituzionale del paese sotto la finzione della cosiddetta democrazia governante (o dell’investitura). Disegno sconfitto dal voto del 5 Dicembre. Grande vittoria democratica del popolo italiano.
Si tratta di trarne l’ultima conseguenza. Abbandonare il Pd al suo destino miserabile. Secedere. Ricostruire il campo di una sinistra democratica. E’ vitale per la democrazia italiana stessa. Non è vero, come si vuole fare intendere, che la scissione sia una questione di cavilli procedurali. C’è dietro una massa abnorme di questioni: sociali, politiche, istituzionali. Sarebbe stato bene consumarla da subito, all’atto del varo del job act. E se è vero che ogni scissione è una disgrazia e anche vero che essa può essere imposta, talvolta, dalla stessa decenza. E’ la circostanza del caso.


