Articolo Uno – Mdp a Milano, Pisapia a bagnomaria

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Fausto Anderlini

di Fausto Anderlini – 24 maggio 2017

Il limbo del camelloporco

A seguito delle ‘fondamenta’ milanesi, quasi ignorate dai media, c’è stato un susseguirsi di commenti salaci da parte di puntuti osservatori.

Fassina rimprovera le Fondamenta di non aver approvato il suo programma neo-sovranista, peraltro minoritario nella stessa Si, e chiude con uno iattante ‘tutto il resto è noia’ neanche fosse a un apericena. Montanari stronca le giornate milanesi come un raduno di apparatniki, ed evoca una lista civica nazionale sul modello del caudillismo De Magistrisiano (par di capire). Dove ciò che è insopportabile non è tanto il rilievo di un limite politico e la torsione interessata a farne il tratto esclusivo di una realtà assai più complessa, ma questo ennesimo misticismo anti-apparatismo politico che ci riporta come in un incubo all’epoca di quelle ‘cento padelle’ dai cui, nel ’93, tutto ebbe inizio. Che peraltro levato da gente i cui mezzi di sostentamento sono tratti da apparati (istruzione, giustizia….. se non da incarichi istituzionali) e rivolto a una carovana di transfughi che non ha neanche una sede fa dubitare di trovarsi davanti a una forma di imbecillità radicaloide e proterva esattamente speculare all’irenismo pisapiico. Dopo aver subito la rottamazione da destra, ora anche quella da ‘sinistra’….un po’ di misura e decoro cavalleresco non stonerebbe….

Alle Fondamenta si respirava un clima: un ritorno, anzi una risorgenza, di cultura politica quale si è formata nella prima fase post-comunista. Questo è stato del resto il segno della ‘scissione’: l’autonomizzazione dal Pd di questa cultura e la sua preservazione. La quale ha limiti largamente tematizzati dagli stessi che la condividono (io fra i tanti) ma è nondimeno una realtà. Un frammento, il più corposo, della diaspora senza il quale essa non avrebbe un centro di ricomposizione.

Lo stesso rapporto con la ‘dirigenza’ è stato segnato da un sentimento ambivalente: rinnovato affetto e investitura fiduciaria ma nella consapevolezza degli errori e dei colpevoli ritardi. Quando Giannini ha messo un dito nell’orecchio a Bersani evocando la mancata rottura al momento del job act (quando a piazza San Giovanni si configurò l’ultima levata di massa della sinistra sociale e loro neanche si fecero vedere) è stata un’apoteosi. Ogni rapporto d’amore è ambivalente e recriminatorio, e se l’amico Cherchi scrive che “Quando vengono a mancare i fondamenti di un’esistenza collettiva capita spesso di legarsi proprio a quelli che le hanno distrutte” vede solo un lato della relazione.

Più a fondo è evidente che si sono accompagnate, più che fronteggiate, due linee: la ricostituzione della sinistra nella sua autonomia come prius (quale argomentata in numerosi interventi di peso, da D’Attorre a La Forgia e altri), e l’alambiccamento attorno al centro-sinistra come servizio di una ‘sinistra di governo’. Di qui un senso inevitabile di irresolutezza, che ha trovato il clou nella vacuità del’intervento di Pisapia. Le ragioni della persistenza ‘ulivista’, malgrado l’anacronismo, hanno una qualche motivazione. Il ‘tradimento’ del fondamento ulivista del Pd è stata la frattura sulla quale è avvenuta la tardiva fuoriuscita del gruppo bersaniano (non il job act e neppure il referendum costituzionale) e un poco del suo magma si è palesato nelle recenti primarie del Pd. Si capisce perciò il tentativo di tenere in vita la suggestione. Non solo per questione tattica (affidando a Renzi il compito dell’abiura e racimolando quante più adesioni possibili sulla incerta frontiera a cavallo del Pd), ma anche per coerenza con le proprie irresolutezze. Ancor più palesi quando si giunge a richiamare l’alleanza col Pd, magari nella cornice del Mattarellum, ma senza Renzi, cioè il proprietario del Pd medesimo. Sicchè la ricostituzione del centro-sinistra ha finito per proporsi come un tentativo tanto necessario quanto improbabile (un’ultima chiamata prima della resa, tanto per avere la coscienza tranquilla).

Ma il corso delle cose va in altra direzione, ed è augurabile che ci si liberi al più presto dal rischio di una trappola in prossimità dell’avvio della corsa. E anche questo era evidente nelle giornate delle Fondamenta.

A Milano un passo avanti è stato fatto. E per parafrasare Lenin, ho fiducia che non ne seguiranno due indietro. Il camelloporco è un animale sgraziato, ma complesso. Non sopporta lavacri, atti catartici, semplificazionismi. Nel profondo della sua malinconica evoluzione traluce la speranza e l’anelito alla concretezza. Il cambiamento e la giusta conservazione (cosa è stata la grande battaglia per il No se non il più illuminato conservatorismo ?). C’è uno scarto fra i condizionamenti pregressi dell’azione, il progetto e il sentimento. Lo si vede bene nella figura cerchiata in rosso in quarta fila nella foto china a rimasugliare chissà cosa mentre l’Alfredo sciorina il suo pensiero e D’Alema è intento ai suoi origami. Il camelloporco va avanti adagio con la testa all’indietro e spesso si ferma a guardarsi i piedi ungulati. E’ nella sua natura. Un limite ma anche la garanzia della sua affidabilità.

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