Buon Natale a tutti

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Alfredo Morganti

di Alfredo Morganti – 24 dicembre 2018

Dire, fare, narrare. Piccola digressione natalizia.

Consentitemi una digressione. Allora, io credo che la differenza passi fondamentalmente tra chi ha qualcosa da dire e chi non ha proprio nulla da dire. ‘Qualcosa da dire’ non vuol dire qualcosa da raccontare. Anzi, di narratori il mondo è pieno, perché ognuno di noi ha storie da narrare, che di solito lo riguardano in prima persona e lo mostrano protagonista. Si tratta invece di idee o di esperienze o di emozioni o sentimenti che, a un certo momento, traboccano e prendono forma. Ecco a cosa si riferisce il ‘dire’ a fronte del più semplice ‘narrare’. La nostra contemporaneità è farcita di racconti, storie, narrazioni, ma è sempre più povera di ‘dire’ e di cose ‘dette’. Forse perché tendiamo all’astrazione, all’impero delle forme, e le vite tendono a evaporare anche se hanno un’indubbia consistenza. Siamo poveri di parole che tocchino il cuore o abbiano l’audacia di prendere di mira l’abisso, che cioè non si limitino a dare vita a una forma ben fatta e conclusa, ma si strazino alle prese con ciò che appare davvero inquietante, tragico o appunto inenarrabile. Il ‘dire’ non vuole racconti e non persegue regole utili a pervenire a un racconto ben fatto, comunicativo, esemplare.

Il ‘dire’ spesso è racchiuso in una parola, in un gesto, in un grido, in un verso, in un improvviso squarcio, in un uomo che nasce o in una esistenza che si spegne. Nel corpo del bambino con la maglietta rossa morto sulla battigia. Nei porti chiusi anche a Natale. Nelle vite di scarto, flessibili, precarie, flebili. Nei giovani senza futuro. Nei lavoratori con paghe da fame. Nei muri che dividono, nei confini che si rialzano. Nel desiderio di riscatto, nella giustizia che non c’è. Il ‘dire’ non ha una ‘scuola’ dietro, perché non c’è un corso di scrittura capace di insegnarne l’artigianalità e la nettezza sentimentale. Io credo che il ‘dire’ fosse davvero all’origine dell’umanità, il dono più grande, e ogni suo perseguimento rievochi quelle proprio origini. Nel ‘dire’ c’è più cuore che mente, ma questo non vuol dire che esso sia una pratica irrazionale, al contrario. ‘Cuore’ qui significa partecipazione effettiva, adesione sentimentale, esserci davvero, sotto certi aspetti indica un progetto di ‘verità’. Il ‘dire’ mette a rischio il proprio essere, è questo il punto ultimo, mentre ‘narrare’ significa appena scivolare sulla superficie, anzi: rendere la superficie sempre più oleosa, di modo che sia impossibile ‘soffermarsi’ adeguatamente sulla cosa. Sia impossibile ‘dirla’.

Faccio un esempio politico, che magari aiuta. La politica ridotta a comunicazione è una specie di sottile o grossolana narrazione, che opera soprattutto per catturare consenso. Non c’entra la democrazia, qui, semmai la sua crisi. Il consenso costruito solo in termini ‘narrativi’ è come se scavasse la democrazia, la impoverisse, la riducesse a uno strumento mediatico, a una macchina procedurale, mutando la rappresentanza in mera rappresentazione. Non solo i vertici dello Stato adottano questa ‘tecnica’ narratologica, ma anche e soprattutto il ‘popolo’, che è quasi lusingato di essere oggetto di attenzioni narrative, ed è lieto che si raccontino le sue gesta, oppure che sia il protagonista di una sorta di grande romanzo politico, nato di sana pianta dalla scuola di scrittura creativa che ha soppiantato le vecchie scuole di partito. I partiti, appunto. Sono le seconde vittime, dopo la democrazia, del nuovo scenario. Uno scenario che vede la politica squagliata e l’omino solo al comando, pronto a scrivere la sua storia assieme al guru, per tentare la scalata politica. Uno scenario di vite ridotte a personaggi, di strategie ridotte a sceneggiature, di dibattiti ridotti a copioni.

Ricordo, invece, il discorso del segretario davanti a migliaia di persone, le parole che diceva, il suo ‘dire’ misurato passo passo alla ricerca del ‘che fare’, dei pensieri con cui confrontarsi, delle emozioni da vivere collettivamente, dell’impresa collettiva da mettere in piedi. Il grande comizio non raccontava storie, non leggeva lettere, non costruiva narrazioni, ma diceva (o tentava di dire) la realtà per indicarne la trasformazione possibile, ecco il punto. Non che rifiutasse di utilizzare simboli, linguaggi, parole, ovvio. Ma la strategia era quella di infilare il coltello nella piaga, e non girarci attorno con un sorriso spesso fuori contesto, raccontando sogni, speranze, vagheggiamenti, desideri come fossero uno spot. Accanto all’ottimismo della volontà continuava a esserci il pessimismo dell’intelligenza e il cuore che tentava di battere all’unisono con gli altri, a partire dai più lontani, gli invisibili, i quasi inesistenti.

Recuperare una dimensione del ‘dire’ e una prossimità alle vite per riscattarle, mi sembra l’unica via per rilanciare la democrazia e ottenere più giustizia sociale. Permanere nella narrazione vorrebbe dire cavalcare un’infinita onda di crisi, foriera di ulteriore astrazione e della venuta di ‘nuovi’ Capi o Capitani che parlano a un ‘popolo’ sempre pronto a votare l’ultimo arrivato come un nuovo messia. Ma che di solito ha poco da dire e solo molte storie da raccontare, anche incoerenti, comunque da copione. In una strana fretta che ha preso tutti, come se il burrone fosse una specie di paradiso e il salto nel vuoto una specie di cambiamento.

Buon Natale a tutti.

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