Fonte: Il testo è il mio
di Riccardo Aprea – 9 luglio 2017
Lo scenario è il seguente: una persona affetta da malattia gravissima, ritenuta allo stato dell’arte della medicina, incurabile e degenerativa, che vive solo in quanto “mantenuta” in vita grazie a complicatissimi macchinari che la ventilano e la fanno respirare, condannata perciò a morte certa e rapida, se privata dell’ausilio delle macchine, per giunta afflitta da dolori atroci, ma lucidissima, ha o non ha il diritto di “pretendere” che non le sia staccata la spina?
Ripeto, persona in pieno stato di intendere e di volere, che in preda a dolori atroci, ormai assuefatta agli antidolorifici, chiede di rimanere attaccata ai macchinari che la mantengono in vita, perché non vuole morire, perché spera che quanto più a lungo possa essere protratta la sua esistenza, tanto maggiori possano essere le possibilità che la scienza medica possa trovi il rimedio al suo problema.
Naturalmente si tratta di un caso estremo, di un paradosso probabilmente, se pensiamo che ciò che realmente accade è esattamente l’opposto: la richiesta da parte di chi si trova in situazioni come quella descritta, che venga “staccata la spina” per porre fine ad una vita che non è più, effettivamente, vita, al dolore, al destino inesorabile di un’esistenza priva di relazioni, priva della possibilità di autodeterminarsi, per morire con dignità.
I casi, più o meno recenti, di Eluana Englaro, di Welby e del DJ Falbo hanno riproposto con forza la tematica del “potere” sul fine vita, della sua demedicalizzazione e, in buona sostanza, della sua riconduzione alla volontà del soggetto interessato.
Se questo è il senso del processo in atto, in qualche modo recepito anche dalla proposta di legge in discussione alla Camera dei Deputati “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”, dovremmo concludere che la volontà del soggetto di cui all’esempio ipotizzato debba essere rispettata e che, quindi, nessuna spina possa essere staccata.
Questo principio è, in fondo, riconosciuto al massimo livello ordinamentale possibile, dalla norma, di rango appunto costituzionale, contenuta nel 2° comma dell’art. 32 Cost. che così recita: “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”
Pongo l’esempio di un caso massimamente estremo, in netta controtendenza con quel che accade in casi analoghi (richiesta della persona di non essere più tenuta in vita artificialmente e, quindi, in buona sostanza, di essere accompagnata a morire), perché penso che una legge è tanto più valida quanto più riesce a normare, con tutto il suo sottostante portato di scelta etica, visione della vita in generale, concezione della vita individuale e del suo coinvolgimento relazionale (quindi emotivo-sentimentale-sociale), i casi estremi.
La qualità della loro disciplina normativa è la cartina di tornasole della qualità complessiva della noma nel disciplinare, in fondo, ciò che, invece, accade generalmente.
Pongo, allora, il problema: sarebbe “giusta” quella norma che, nel caso estremo dell’esempio, impedisse di staccare la spina? Assecondasse la volontà del soggetto di non essere accompagnato alla morte?
La mia risposta è: sì, per il semplice motivo che ben può e deve l’ordinamento accompagnare alla fine della vita quella persona che si trovi nelle condizioni di una sostanziale “non vita” laddove è essa che lo richiede.
Ma può l’ordinamento accompagnare alla fine della vita quella persona che non è in grado di esprimere alcuna volontà, perché, come nel caso del piccolo Charlie, ancora immatura sotto tale profilo, o perché, ad esempio, pur essendo una persona adulta, non ha mai espresso nel corso della sua vita precedente alla malattia totalmente invalidante, alcun pensiero, alcuna valutazione, alcun desiderio circa il proprio destino laddove si fosse trovato in futuro in una situazione del genere e non è in grado di farlo in quanto in uno stato in cui è privo della capacità di intendere e di volere (tecnicamente: incapace di agire)?
Un conto è accompagnare a morire, così esaudendo un desiderio della persona, ben altro conto è accompagnare a morire senza poter conoscere la volontà della persona interessata.
Direi che la differenza è assolutamente sostanziale!
Di fronte a questo scenario si pongono, a mio parere, due problemi:
a) a chi debba essere riconosciuto il potere di esprimere, in sostituzione della persona interessata, la volontà sul da farsi (richiedere di staccare la spina, o nulla richiedere perché si vuole evitare lo stacco della spina);
b) quale ruolo e, eventualmente, quale potere, debba essere riconosciuto alla struttura medica che ha in cura la persona.
Sul primo punto non c’è dubbio che il potere di esprimere la volontà sostitutiva di quella del minore o dell’incapace di agire non può che essere attribuita rispettivamente ai genitori, quali esercenti la potestà genitoriale, e al tutore.
Sul secondo punto direi che nessun potere di scelta, sostitutivo della volontà della persona, possa essere assegnato alla struttura sanitaria, la quale va invece investita, esclusivamente, e non è poco, dell’obbligo di fornire ai genitori o al tutore la più ampia e adeguata informazione circa la gravità della patologia, le reali prospettive di guarigione/miglioramento, alla luce dello stato dell’arte della scienza medica in quel dato momento, la possibilità di ricorrere a cure palliative e quant’altro, al fine di consentire ai soggetti titolari del potere di manifestare la volontà in nome e conto del malato, di esprimere la detta volontà sulla base di un ampio e approfondito quadro clinico/informativo.
La scelta operata dall’Alta Corte inglese, nel contrasto fra i genitori di Charlie, e i medici dell’ospedale che lo hanno in cura che, appunto sulla base di tale contrasto, hanno richiesto alla giustizia di essere autorizzati ad interrompere le cure mediche nell’interesse superiore del bimbo, altrimenti costretto a morire in preda a sofferenze atroci, appare assunta sulla base di un principio diverso da quello su indicato e cioè sulla base di un principio di diritto che riconosce ai medici il potere di decidere in ultima istanza su ciò che è bene o su ciò che è male per il piccolo Charlie, quindi anche contro la volontà di chi detiene legittimamente il potere di esprimere la sua volontà (rectius: di esprime la volontà in suo nome e conto).
Principio che, a mio parere, è errato sia giuridicamente, in quanto espropria arbitrariamente i genitori del legittimo potere di esprimere la volontà per il minore, sia eticamente nella misura in cui tale intervento viene effettuato non per favorire la volontà di una persona, o dei suoi genitori, se minore o del suo tutore, se incapace, di porre fine ad una vita-nonvita attraverso lo “stacco della spina”, ma per determinare, attraverso “lo stacco della spina”, la scelta contraria rispetto a quella manifestata di non porre fine ad una vita-nonvita.
Coerente con tale impostazione appare la scelta della struttura medica inglese di non assecondare la richiesta dei genitori di Charlie di consentire loro di trasferirlo all’estero, in Italia o negli Stati Uniti, dove rispettive strutture sanitarie (l’Ospedale bambino Gesù per l’Italia) hanno manifestato la disponibilità di accoglierlo sia nell’ottica di assecondare (almeno per quanto riguarda il Bambino Gesù) la richiesta “sic et simpliciter” dei genitori di “non staccare la spina”, sia per entrambe di tentare una cura sperimentale, dagli esiti sicuramente incerti, ma che si appalesa, nella circostanza, come estrema ratio terapeutica.
Tale diniego, almeno per quanto riguarda il trasferimento nella struttura italiana, appare quanto mai grave e incomprensibile essendo l’Italia uno dei 47 Paesi europei, con l’Inghilterra, che ha sottoscritto la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali o CEDU, il cui presidio è demandato alla Corte Europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo.
Sembra, tuttavia, sul punto, aprirsi qualche spiraglio, a temperamento di una decisione e di un principio di diritto non condivisibile: la struttura medica inglese starebbe ricorrendo nuovamente all’Alta Corte “alla luce delle richieste relative a possibili altri trattamenti” (V. http://www.corriere.it/esteri/17_luglio_07/caso-charlie-gard-l-ospedale-chiede-nuova-udienza-all-alta-corte-il-protocollo-bambino-gesu-5219d05c-6334-11e7-8724-0d53d361406e.shtml) per essere autorizzata a consentire il trasferimento di Charlie in una delle due strutture straniere.
In bocca al lupo Charlie!


