Chiara Geloni: «Noi di sinistra non saremo mai bravi a comunicare, perché noi vogliamo cambiare il mondo»

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Alfredo Morganti e Giorgio Piccarreta
Fonte: L_Antonio
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intervista a Chiara Geloni, a cura di Alfredo Morganti e Giorgio Piccarreta – 18 luglio 2017

Chiara Geloni non è solo una giornalista, ma è un ‘intellettuale organico’, una ‘militante’, come si diceva una volta. E anche una inattuale (come molti di noi), rispetto al panorama politico e culturale di questi ‘giorni bugiardi’. La sua intervista è bella, ispirata dal cuore e dalla mente. Per chi fa comunicazione, dire che “la comunicazione conta pochissimo e dovremmo parlarne tutti meno”, come dice qui la Geloni, non è solo un paradosso, ma è una sfida, uno sguardo lucido sulla realtà. Serve a dire che il mondo non va ‘comunicato’ così com’è, ma cambiato a partire proprio da taluni concetti ‘basici’ (cit.): “gli uomini sono tutti uguali, […] la terra è di tutti, […] un immigrato è nostro fratello”. Parole vecchie di duecento o duemila anni, ma sempre ‘nuove’, nuovissime, rivoluzionarie per chi vive questi tempi difficili e controversi e si guarda intorno inquieto e spaesato.

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“Abbiamo passato anni così, seduti sopra una montagna di bugie. Bugie che ancora restano, anche se un po’ cominciano a scricchiolare. Ma quello che è ancora più grave è stato perdere l’orecchio alle bugie. La politica è diventata quasi solo comunicazione, abilità comunicativa e disinvolto storytelling, e controllare la comunicazione è diventato sinonimo di avere successo in politica. Io penso, vedete, che il vero slogan della campagna del 2013 non fosse tanto “l’Italia giusta”, ma “non vi racconterò favole”. Una reale via d’uscita dal berlusconismo, una vera discontinuità, una rivoluzione”.

“Ho visto il discorso di Corbyn al Glastonbury Festival:  lo descrivevano come uno sfigato, invece è una rockstar: cita Shelley a un concerto rock e fa partire cori da stadio. Perché? Perché va alle radici, esprime in purezza concetti basici (cit.) del messaggio originario della sinistra. E Francesco fa lo stesso, il Vangelo in purezza. Il fatto è che quei ragazzi però quelle parole di duecento o di duemila anni fa non le hanno mai sentite dire così. E allora, per loro, sono “il nuovo”.

“Io continuo a pensare che l’idea che ha dato vita al PD, quella di un centrosinistra plurale, costituzionale, di governo, sia la risposta giusta per l’Italia. Diciamo che mi sono rassegnata a costruire daccapo quella risposta, fuori dal PD”.

(Chiara Geloni)

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Chiara Geloni, cosa sono i ‘giorni bugiardi’?

E pensare che non doveva essere quello il titolo del nostro libro. E pensare che per me, che amo i cantautori, quella non è certo la canzone migliore di Ivano Fossati, al cospetto per esempio dei capolavori di Macramé (lasciate stare, mi sono capita da sola). Però quei versi e quel titolo sono perfetti. Sono stati anche profetici. Quanti giorni duri ci aspettavano, nell’autunno del 2013. E quante volte, e in quanti, abbiamo pensato che i giorni bugiardi non sono finiti, non finiscono mai. Quante volte ci siamo ripetuti, per farci coraggio, che prima o poi saremmo tornati a casa. Abbiamo passato anni così, seduti sopra una montagna di bugie. Bugie che ancora restano, anche se un po’ cominciano a scricchiolare. Un elenco completo è forse impossibile farlo qui. Ma quello che è ancora più grave è stato perdere l’orecchio alle bugie. Rimanere così in pochi a percepirle. Vedere tanta gente convincersi così rapidamente che “la politica è questo no?”: abilità comunicativa e disinvolto storytelling, certo. Io penso, vedete, che il vero slogan della campagna del 2013 non fosse tanto “l’Italia giusta”, ma “non vi racconterò favole”. Una frase che Bersani diceva in ogni comizio, una reale via d’uscita dal berlusconismo, una vera discontinuità, una rivoluzione: il sogno che la politica si potesse fare guardando negli occhi le persone, cercando insieme una strada come popolo, cercando di dire e di dirsi la verità. Quel sogno si è infranto. L’Italia e il Pd hanno scelto un’altra strada. Ma io ci credo ancora.

Perché Renzi? In che modo ha interpretato (se lo ha fatto) la congiuntura politica di questi anni?

Forse per questo. Per motivi non diversi in fondo da quelli per i quali gli italiani si erano affidati a lungo a Berlusconi. Per il contrario della rottamazione: per la continuità. Intendiamoci bene però, e non banalizziamo: Renzi non è Berlusconi, e il Pd non è diventato un partito di destra, secondo me. C’è ancora molta gente di sinistra che vota Pd, e io la rispetto. Però mi pare che Renzi, come Berlusconi, alla fine nei fatti abbia garantito tutti gli equilibri esistenti: nel sistema finanziario, nell’intreccio tra finanza e comunicazione, alla Rai, nell’establishment. Che cosa è cambiato veramente in questi anni? Niente. Basti pensare a quelle che chiamano liberalizzazioni, e mi limito ad enunciare senza fare confronti. Dall’altro lato, quello di chi è fuori dall’establishment, Renzi da un lato ha cavalcato una specie di grillismo soft e paradossale (messaggi anti casta da palazzo Chigi!) e dall’altro ha fomentato l’illusione che andasse tutto bene, che l’Italia contasse tantissimo e battesse i pugni sul tavolo, che ci fosse la ripresa. Questa parte del suo consenso, quella popolare, sta venendo meno, perché i fatti la smentiscono. L’establishment seguirà, come sempre.

Con la scissione si è scelto di fare una forza politica fuori dal PD. Perché il PD ormai è ‘altro’? Perché è ‘mutato’? Perché anche senza Renzi non sarebbe più il partito che era (o che forse non è mai stato)?

Di certo è molto difficile pensare che, senza Renzi, il Pd tornerebbe a essere come prima. Io però continuo a pensare che l’idea che ha dato vita al Pd, quella di un centrosinistra plurale, costituzionale, di governo, sia la risposta giusta per l’Italia. Diciamo che mi sono rassegnata a costruire daccapo quella risposta, fuori dal Pd. Convinta di incontrarmi di nuovo con tanti che sono ancora nel Pd, in maniera trasversale e sorprendente. Non credo che tutti i “renziani” di oggi siano renziani davvero, per intenderci. Anche perché li conosco da molto prima che lo diventassero. Io ho sostenuto a lungo che non si esce da un partito perché non ti è simpatico il segretario. Tuttavia ho dovuto ammettere che in questo Pd non c’è più spazio per il pluralismo e che nemmeno le più gravi sconfitte e smentite creano lo spazio, almeno al momento, per cambiare strada come sarebbe necessario. Le modalità di celebrazione del cosiddetto congresso, e ancora di più il dopo congresso, mi pare ci diano ragione.

Che fare? Una forza di “centrosinistra”, ripetendo di nuovo il percorso di questi anni, l’amalgama, l’unità tra culture politiche diverse, ecc.? Oppure dare vita a un movimento/partito di sinistra che parta dall’oggi, dalla necessità di riformare il Paese, restituire dignità al lavoro, occuparci degli ultimi, promuovere giustizia sociale, nel tentativo di costruire le condizioni di una crescita e di uno sviluppo equo e sostenibile, con chance per tutti e sostegno ai meno fortunati? Ricucire il passato o guardare al futuro?

Centrosinistra o sinistra mi sembra un dilemma poco appassionante. E dico di più: non mi piace tanto neanche quello tra passato e futuro. La retorica del nuovo è una delle trappole dei giorni bugiardi. Ma penso che per i giovani oggi non c’è messaggio più inedito che sentir dire da un politico, o da un papa, che gli uomini sono tutti uguali, che la terra è di tutti, che un immigrato è nostro fratello. Penso a Francesco e si è capito, ma penso anche a Corbyn. Ho visto il suo discorso al Glastonbury Festival:  lo descrivevano come uno sfigato, invece è una rockstar: cita Shelley a un concerto rock e fa partire cori da stadio. Perché? Perché va alle radici, esprime in purezza concetti basici (cit.) del messaggio originario della sinistra. E Francesco fa lo stesso, il Vangelo in purezza. Il fatto è che quei ragazzi però quelle parole di duecento o di duemila anni fa non le hanno mai sentite dire così. E allora, per loro, sono “il nuovo”. Vabè ho divagato e ho fatto un sacco di casino e paragoni impropri. Per rispondervi, non credo che nessuna ricetta basti da sola, né che ci possiamo permettere di dire a qualcuno “le tue idee non ci servono”. Anche perché noi dobbiamo vincere, non solo “ricostruire la sinistra”. Non ci possiamo permettere di metterci a litigare su chi ha la patente di vera sinistra, perché l’Italia ha bisogno di noi.

Posto che la cultura politica della sinistra si è quasi dissolta, per incidenti di percorso e per una sorta di suicidio vero e proprio, come reagiscono i cattolici democratici (che una presenza culturale ancora ce l’hanno) alla provocazione del ‘disastro etico’ (Renzi) che sarebbe prodotto dall’accoglienza verso gli immigrati? Ma davvero ormai viviamo un’epoca di cinismo assoluto, tale che la politica vuole solo vincere, e tutto va bene allo scopo?

Questo è un tasto doloroso per me. Vedere tanti portabandiera del cattolicesimo democratico consegnarsi alla propaganda dei trionfi del renzismo, non reagire a parole d’ordine che non esito a definire antievangeliche come la rottamazione delle persone, lasciare infine che il settarismo di maggioranza renziano distrugga il nostro approdo, il Partito democratico, limitandosi a qualche appello ai buoni sentimenti, è stato ed è un vero grande dispiacere. Troppi silenzi, troppe furbizie. Ma la Chiesa ha le sue risorse e lo Spirito trova le sue strade. Spero che presto vedremo i frutti della semina di Papa Francesco anche tra i cattolici impegnati in politica. La verità è che che quei frutti ci sono, ma l’impegno politico oggi, nonostante gli inviti del papa, non sembra essere una priorità per i laici cattolici. Cosa che dovrebbe interrogare sia loro che i politici e in particolare la sinistra.

Ma è vero che la politica è ridotta a ‘comunicazione’? Che quello che doveva essere uno ‘strumento’, in realtà si sta imponendo, mutando senso, carattere ed essenza all’attività politica, ridotta quasi ad ancella dei mezzi comunicativi? Che cosa le dice la sua esperienza?

Come dicevo, questa è un po’ l’essenza dei giorni bugiardi. La politica è diventata quasi solo comunicazione, e controllare la comunicazione è diventato sinonimo di avere successo in politica. Tutto viene spiegato con gli “errori di comunicazione”. È un’illusione. Troppi politici, anche tra i migliori, danno troppa importanza alla comunicazione. Ci pensano troppo, e si distraggono. Se una strategia politica è sbagliata, non c’è bravo comunicatore che possa farla diventare giusta e, alla lunga, vincente. Inoltre noi di sinistra non saremo mai “bravi a comunicare”, perché noi vogliamo cambiare il mondo: quindi l’establishment – del giornalismo, della comunicazione – non ci darà mai la patente, diffiderà sempre. Guardate Corbyn, ancora: uno dei più fenomenali episodi di incomprensione di una strategia comunicativa vincente della storia moderna. Andrebbe insegnato nelle scuole di politica questo. Io quando mi invitano a parlare di comunicazione in quanto esperta di comunicazione vado e smonto tutti spiegando che la comunicazione conta pochissimo e dovremmo parlarne tutti meno. Non è un grande affare, invitarmi.

Com’è la situazione dell’informazione italiana in rapporto al potere politico? Sembra che tutto si riduca a retroscena e veline. È così? Abbiamo una stampa e una tv ‘codisti’ sul piano politico, oppure di meglio proprio non si può fare e il mestiere del giornalista appare davvero oggi sempre più difficile?

Noi giornalisti ricorderemo questi anni con grande imbarazzo. Almeno lo spero. Mi ha colpito qualche giorno fa, dopo le anticipazioni a la carte del libro di Renzi uscite in contemporanea su tutti i giornali senza una riga di commento o fact checking, un post di Fabio Chiusi. Era scritto in inglese, con l’intenzione dichiarata di far sapere all’estero come si comportano i media italiani. Mi ha colpito perché perfino a me, al netto del giudizio su cosa c’è scritto in quel libro, il coro mediatico era sembrato una cosa normale. Il nostro orecchio si è abituato a una cosa che nemmeno Macron o Trump potrebbero permettersi. In Italia sì. Leggiamo pezzi totalmente inventati, interviste con domande imbarazzanti. Io ho sempre lavorato per la stampa di partito, per scelta: avrei potuto farmi sistemare in Rai, oppure tentare la strada di giornali dove si guadagnava meglio che al Popolo o a Europa, ma a me piace il giornalismo militante. Tuttavia io e i miei colleghi non ci saremmo mai sognati di scrivere alcune delle cose che si leggono sui cosiddetti giornali liberi e d’opinione. Forse dovremmo anche riflettere sul fatto che strangolare – di fatto – tutti i giornali politici tagliando i finanziamenti pubblici ci ha impoverito tutti. Quelle voci magari non stavano nel mercato ma arricchivano il pluralismo culturale. Ho deciso di farmi degli amici con questa intervista, lo avrete capito.

La fine che ha fatto l’Unità grida vendetta. Non è solo la fine di un giornale, è la fine di un pezzo di cultura politica gloriosa, che nei decenni trascorsi svolgeva ancora un ruolo da protagonista. Come si resuscita l’Unità, come toglierla da quelle mani, come farla diventare il giornale del lavoro? Magari con Chiara Geloni Direttrice, perché no?

Appunto. Oggi il problema è quasi insolubile, perché il concetto stesso di giornale di partito è diventato inaccettabile. La sinistra non ha saputo difendere il finanziamento pubblico, e questo è stato un male. Oltretutto c’è un problema generale, enorme, di crisi dell’editoria e in particolare della carta stampata, poi per questa vicenda specifica ci sono colpe specifiche, che vanno sommate a quelle per la chiusura di Europa. Col sito di Articolo 1 stiamo facendo il possibile per riempire il vuoto della mancanza di un giornale per informarsi, approfondire, raccontare cosa succede nel territorio. È una missione quasi disperata, perché per fare un giornale ci vogliono i giornalisti, non basta il volontariato. Ma in attesa di tempi migliori, ci proviamo. Da quando siamo andati online, il 25 aprile, non è mai passato un giorno senza che mi arrivasse una storia da raccontare, un’opinione da ospitare, una proposta, un’idea. La voglia c’è in giro, dispiace non poter fare di più.

Ma davvero i cantautori l’hanno rovinata? In senso buono o cattivo?

Io certe cose non so proprio pensarle, senza i cantautori. Le loro frasi fanno parte del mio modo di parlare, e di vedere le cose. Non so se mi hanno rovinato, ma mi hanno fatto diventare come sono. Non so dove andare ma comunque ci vado, per esempio. Non è male, una volta che l’hai capito, ti aiuta anche a prendere decisioni. Poi chissà cosa voleva dire l’Autore quando l’ha scritto.

Domandone finale: tra i suoi rarissimi difetti ce n’è però uno, uno solo, di dimensione colossali: la fede juventina. Le chiediamo accorati: perché?

Perché ho preso dai nonni, che si chiamavano Fernando e Ferdinando, due gerundi. A casa del nonno Fernando ho visto Novantesimo minuto la sera che la Juve vinse contro il Toro il campionato del record, quello dei 51 punti. 1977? Mi ricordo le immagini in bianco e nero nella TV in salotto e l’invasione di campo, ero sbalordita perché non ne avevo mai vista una. E pensate che mio babbo è del Toro. Ma per affetto verso di me e verso il nonno, è un torinista non anti juventino. Voi romanisti rosiconi dovreste imparare.

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Chiara Geloni, giornalista. Dirige il sito di Articolo 1. Ha un blog – Chiaragione -, un paio di profili social, una laurea, un master e un motorino. Ha lavorato al Popolo, ha vicediretto Europa, ha diretto Youdem. Ha scritto nel 2009 Highlander e nel 2013, con Stefano di Traglia, Giorni bugiardi. Si è fatta una certa fama.

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