Ci sono molte speranze, ma nessuna per noi

per Gabriella
Autore originale del testo: Andrea Colli
Fonte: facebook

di Andrea Colli – 3 settembre 2014

“…sono finiti i bei tempi delle sagre della focaccia, delle discoteche, dei fuochi d’artificio dell’Assunta, scrive Ferruccio Sansa . A ogni angolo, come un’imboscata, ti aspetta un dibattito pensoso dei “neo ottimisti” stile Oscar Farinetti. Nei prossimi giorni lo segnalano a Camogli e a Sarzana. Prima al Festival della Comunicazione, poi a quello della Mente. Difficile dire che cosa c’entri con entrambi, non essendo né un giornalista, né uno scienziato o un filosofo di chiara fama. Chissà forse, come dicono i maligni, c’entra perché da quelle parti sogna di aprire nuove sedi di Eataly. Ma il punto è anche un altro. Lo slogan scelto per il dibattito del nostro Oscar: “Il più rimane da fare, per questo il futuro è meraviglioso”. E qui Farinetti –come tanti intellettuali di fede renziana – maneggia una merce molto più delicata della carne piemontese, dei vini doc e della pasta di Gragnano: la speranza. Il sottinteso dell’ideologia dei “nuovi ottimisti” pare chiaro: per farcela basta crederci. I cacadubbi sono nella migliore delle ipotesi dei disfattisti, nella peggiore dei falliti rancorosi. Miopi, pure un po’ minchioni. Ma è davvero questa la speranza, una semplice – vuota, verrebbe da dire – attitudine dell’animo che prescinde dalla memoria del passato, dalla consapevolezza del presente, da un’idea di futuro? Insomma, un’azione che si compie prima di individuarne il contenuto? Un verbo senza complemento oggetto? “Io vivo, quindi spero”, diceva Leopardi. Ma proprio per questo appare insidioso il neo-ottimismo, perché riduce un bisogno vitale a slogan, a merce. Da piazzare come spot, vedi Berlusconi, o come bistecche. No, la speranza è bene prezioso, va maneggiata con cura. Eppure non è – esclusivamente – responsabilità dei Berlusconi, dei Renzi, dei Farinetti. È colpa anche nostra che chiediamo per l’ennesima volta solo di credere, di sperare. Delegando agli altri il compito di dirci in che cosa. Anche in niente. E così rischiamo di fare la fine che descriveva Kafka: “Ci sono molte speranze, ma nessuna per noi”.

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