Fonte: facebook
di Antonio Napoletano – 21 ottobre 2014
L’AZIONE PARALLELA DI MATTEO RENZI.
I lavori della direzione Pd si concludono per l’ennesima volta con un nulla di fatto. Sempre che non s’intenda dare un qualche valore alla turquerie del solito Orfini, il quale per conto della sua nuova guida spirituale, annuncia, dulcis in fundo, che sì, la discussione continuerà. Ca va sans dire, in apposito gruppo di lavoro e, tanto per far capire come, invitando tutti quelli che hanno cose da dire in proposito: da Bettini a Barca.
E’ il ‘Partito della Nazione’ bellezza! Quello aperto a tutti (e a nessuno), compresi i cascami di Scelta Civica, lo sfracello montiano, e SEL. Insomma a breve nel Pd a trazione renziana, dopo la stagione della cura dimagrante, si andrà da Romano a Migliore e, sembra di capire, almeno per un bel pezzo, con tanto di ‘vecchia guardia’, sinistre varie e tutti quelli diversamente renziani.
Il Termidoro italiano, dunque, trovato il suo più efficace e autentico napoleonide, prova ora a costruire quel collage di dentro-e-fuori, quel vestito d’arlecchino massimamente funzionale alle res gestae del grande Innovatore. Un vestito comodo, una sorta di rete a strascico che raschia e raschierà tutto quello che incoccerà nelle sue mille rotte e che sarà, volta a volta, partito degli eletti e nominati di secondo grado, partito cognitivo, rete di reti, comunità, certo, ma disintermediata in quel tanto che occorre a lui, l’Unico, il solo intermediario dal cui verbo tutto principia e finisce. Un dentro-e-fuori incontraddottorio e dispensatore di Opportunità, essendo questo l’approdo che coerentemente si prospetta a una sinistra senza più anima, né pensiero e che l’ignavia reticente su ciò che è stata ha condotto, passo passo, verso questa resa disarmata e senza onore.
Hanno voglia ad alzare la voce. A fare domande irrituali e puntute. L’azione parallela di Matteo Renzi, l’oscuro meccanismo che l’ha sbalzato in testa alle classifiche (e ai sondaggi) rimane coperto e quello che dice di sé e di quello che vuol fare, è per i più una specie di dolce naufragare in un mare di banalità, Così, sciolto da ogni obbedienza e coerenza, improvvisa al momento e alla bisogna, miscelando schegge di futurologia, ottimismo da imbonitore, ma anche liberando e legittimando rancori covati a lungo dalle lunghe, colpevoli assenze della sinistra e facendone l’asse su cui ricomporre, a sua immagine e somiglianza, pezzi di società smemorati e incattiviti.
Il suo stare dentro-e-fuori il partito, spolpato e gestito come una bad company, dentro-e-contro la sinistra che credeva di abitarlo, non solo gli ha consentito di prendersi, con il partito, quadri, eletti ed elettori, ma, dove non è ancora passato, di rinchiudere gli ostinati in una sorta di riserva immiserita e minoritaria, senza sbocchi sia dentro sia fuori di esso, incrementando a dismisura l’appeal, il richiamo verso quel paese profondo insofferente a ogni disciplina e solidarietà, a ogni Noi che non sia quello della ‘roba’ e dei propri interessi.
***
Traggo dalle parole sconsolate di Fassina l’elemento di verità e di vero dramma di questa direzione, quando, quasi con voce strozzata, ha detto che il dibattito sulla forma partito sarebbe stato più utile e necessario farlo anni fa, all’origine del PD. Per poi concludere, mettendo sul conto di Bersani, il non avere avuto il coraggio, durante la sua segreteria, di affrontare la questione, pur messa in agenda, stanando i boiardi dai loro veti incrociati.
Aver pronunciato quelle parole, ha, insomma, dato il senso dell’inanità e della ritualità degli stupori attuali, cogliendo in modo sintetico, ma estremamente efficace, l’insensatezza di un agire politico che deve contemporaneamente giustificare la propria esistenza e ascendenza e, insieme, provare a dare un freno alla resistibile ascesa dei nuovi termidoriani e dovendo farlo senza riuscire a dire con nettezza e sufficiente radicalità in nome e per conto di chi stanno parlando. Giacché l’esperanto politico del Pd è e rimane il brodo di coltura più congeniale alle ‘superficiali’ improvvisazioni di Renzi , ma anche la palus putredinis di posizioni che si vorrebbero alternative, ma che per farlo sono costrette a stare dentro e a confondersi in quelle stesse categorie e ordine del discorso.
Così, se Cuperlo, e giustamente, chiede conto della Leopolda, più che della sostanza e della alternativa a quel modello ‘confederale’ e ‘parallelo’, che si va profilando in modo irresistibile, non può fare a meno di richiamarsi a una generica ‘forma comunitaria’. La stessa ormai dai contorni destrutturati, indefiniti, senza più sostanza comune e, non a caso, trasformata dalla maggioranza e dal suo ispiratore nella bad company da cui non ci sarebbe più nulla da spremere se non il persistente e residuo appeal del brand o dei brand che la composero. Con la paradossale situazione, però, che di quella forma al suo apogeo, la maggioranza ha estrapolato, per farlo vivere come arma di dissuasione e intimidazione, la pretesa a un costume di lealtà, di obbligazioni a senso unico, allora fondate su un idem sentire,e oggi del tutto velleitario e inesistente o di una sola parte, che se ne fa scudo a guardia della sua insindacabilità e che lo usa o riusa unicamente per ottenere obbedienza silente e allineata erga omnes.
Basterebbero queste poche annotazioni per escludere qualsiasi – e opportunistica – ulteriore stanzialità in quello che sta diventando sempre più chiaramente il Pd. Quando, infatti, le stesse categorie concettuali e discorsive entrano in una spirale progressiva di perdita del loro significato, anzi questo diventa terreno potenziale di scontro o di conclamata entropia, non si da più spazio utile, non solo al confronto contingente sulle singole decisioni, ma, soprattutto si impedisce alla discussione di varcare le soglie della autoreferenzialità, trasformandosi in una sorta di gergo, di slang per addetti che non ha più corso significativo oltre la cerchia degli addetti.
E di questa pulizia semantica sappiamo tutti quanto ci sia bisogno e urgenza. Se il Vecchio diventa il Nuovo e s’ìmpadronisce del tuo lessico, usa le tue categorie per fare la sua politica, se quello che doveva unificare diventa l’arma più potente per confondere e dividere, il campo delle scelte si assottiglia e i tempi per ritornare a distinguere, dando alle parole il loro significato storicamente determinato si fanno incombenti.
E’ questo deserto che è necessario evitare.
E’ stato detto e giustamente che la Cgil è la sinistra che resiste. Ma non basterà uno sciopero a farle riconquistare quel ruolo che le spetta e cui aspira. E nella trappola messa in piedi dai neotermidoriani capeggiati da Renzi si stanno usando tutti gli strumenti (compresi gli errori e le molte omissioni del sindacato) per farla scattare in modo epocale.
Ripetendo lo schema della scala mobile e di quello che quella sconfitta ha significato.
Pertanto è capitale che lo sciopero e la manifestazione, la presenza di moltitudini a Roma, sia oltre ogni previsione. Chi ha cuore la causa della sinistra deve fare di tutto perché da lì, dalla riuscita dell’iniziativa della Cgil, possa iniziare una rimonta. Un riguadagnare il campo aperto da parte del sindacato e, insieme, un processo rigeneratore delle sue capacità di essere vera rappresentanza democratica del lavoro e dei mille lavori in cui si va frantumando. E’ necessario per la Cgil, ma sarà decisivo anche per uscire dal vuoto politico in cui il sindacato è costretto a muoversi.
Il ritorno in campo della forza del sindacato, infatti, sfronderà molti dei falsi problemi che oggi ingombrano la ripresa di una discussione pubblica e sensata della sinistra e tra le sinistre. E questo la Cgil potrà farlo con più speditezza se potrà infondere e infodersi coraggio e fiducia nella propria forza e nella propria accertata capacità di mobilitarla.
Da qui, tenendo l’occhio e la mente, non solo agli errori e alle omissioni del passato anche recente, ma alla complessità del futuro che incombe e delle sfide che reca con sé, si può ragionevolmente ri-pensare, senza psicodrammi o inutili geremiadi, la sinistra e la forma più adeguata e moderna della sua autonomia