di Alfredo Morganti – 21 novembre 2018
Ho letto le dichiarazioni di Minniti, che ha detto di non essere mai stato comunista. Immagino che stava nel PCI per errore, magari pensava che si chiamasse in un altro modo, che so, Pasquale. Fanno il paio con quelle di Veltroni, qualche anno fa. Anche lui temette che qualcuno potesse giudicarlo comunista, e allora smentì recisamente. Forse sono in sintonia con altre dichiarazioni, altre confessioni, altre ammissioni di gente che oggi si schermisce solo all’idea che qualcuno possa considerarli comunisti, anche solo anni addietro. Ho letto la risposta orgogliosa di Peppino Caldarola: io sono stato comunista, invece. Risposta legittima, per certi aspetti dovuta dinanzi a tale teatrino.
Si badi: non è che sia obbligatorio essere stati (o essere tutt’ora) comunisti. Scoccia l’idea che oggi, a distanza di tempo, ci si ricordi che la militanza nel PCI (tra i comunisti) fu una specie di equivoco, un errore terminologico, una leggerezza emendabile, uno svarione, sanabile con una dichiarazione ufficiale alla stampa, tanto per essere chiari. Con una dichiarazione che dovrebbe fare giustizia in vista delle primarie del PD, e magari ripulirsi un po’ l’anima da chissà quale incrostazione che zavorrerebbe la corsa alla segreteria del PD. Lezione numero uno: mai rischiare di apparire traditori o insinceri o infidi quando ci si candida a una carica di rilievo pubblico.
Per me che non faccio fatica ancor oggi a dirmi comunista italiano, tutto ciò è davvero incomprensibile, oscuro, persino esageratamente cinico. Non ne capisco la fondata ragione, se non in termini di comunicazione mediatica e di calcolo politico e personale. Perché io, in quegli anni ormai lontani, nel PCI ho imparato la necessità della democrazia parlamentare, la centralità dei partiti, ho imparato a stare tra le persone più disagiate e tra gli ultimi, ho imparato a lavorare in un collettivo, a sentirmi parte, a rispettare i compagni più anziani, a non augurarmi la rottamazione dei dirigenti, anzi alla morte di Berlinguer provai un grande vuoto. Ho anche imparato il senso della mediazione culturale, linguistica, istituzionale. Ho scoperto la bellezza della politica. E poi il valore della solidarietà umana e sociale.
Ho anche capito, allora, che amare questo Paese non era per sciocco nazionalismo, ma per orgoglio verso la propria cultura, la propria lingua, le città, i paesaggi, i grandi italiani. Il PCI non era il paradiso, perché il male è ovunque, ma fu comunque una grande scuola di umanità e di pensiero. E se ci penso, tutto quello che ho elencato qui è proprio ciò che manca oggi, e che invece servirebbe come il pane per ridare un po’ di luce a questo nostro Paese sfregiato. Forse è il contrario, allora, forse servirebbe invece dire all’opposto: ‘io sono un comunista italiano’, non schermirsi e negarlo platealmente. Essere comunisti italiani non per semplice orgoglio del proprio passato, ma per la scuola frequentata, per la tradizione che si è ereditata, e per apparire più veri agli occhi delle persone, convincendoci (lezione numero due) che possiamo davvero fidarci di te, che non ci racconti storie, che sappiamo chi sei e che sei ‘vero’, e non ti affidi a plateali negazioni e sorprendenti smentite per raccontarci quale sarebbe stata la tua storia e quale potrebbe essere il futuro che ci proponi. Certo, lo capisco, il cinismo non aiuta.