Franco Cardini: “La dichiarazione di Alain de Benoist, che sarebbe disposto a votare Trump piuttosto che Biden, francamente mi ripugna”

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Franco Cardini
Fonte: Minima Cardiniana

LA LUCIDITÀ DI UN INTELLETTUALE “ISOLATO”
A PROPOSITO DI UN’INTERVISTA AD ALAIN DE BENOIST
Nei confronti di Alain de Benoist, una delle migliori intelligenze critiche e degli spiriti più liberi d’Europa, si continua da troppe parti a mantenere un atteggiamento improntato a un’ingiustificabile ostilità. Chi però è esente da pregiudizi di sorta non può non ammirarne l’intelligenza, il coraggio e l’ampiezza di prospettive.
Tali doti si sono confermate nel corso di una recente intervista a proposito della situazione internazionale che de Benoist ha concesso a Nicholas Gauthier ed è stata edita col titolo rivelatore La victoire de Donald Trump est souhaitable, faute de mieux…, il 15 ottobre 2020, sul sito “Boulevard Voltaire”.
Sono un vecchio ammiratore di Alain de Benoist e mi onoro anche della sua amicizia. Non posso dire di trovarmi sempre, su tutto e del tutto d’accordo con lui, ma senza dubbio i suoi giudizi mi trovano molto spesso decisamente consenziente. Confesso di aver esitato dinanzi al titolo di questa intervista, con il contenuto della quale concordo obtorto collo. Su due piedi ho pensato a una boutade provocatoria: ma de Benoist non è uomo da boutades. Ecco quanto afferma nella prima risposta alla domanda dell’intervistatore, e temo che il suo parere corrisponda a uno di quelli che Dante avrebbe qualificato come “invidïosi veri”:

“Auspico la sua rielezione [di Donald Trump], ma per difetto o in mancanza di meglio. Come Lei sa, il personaggio non ha molto da farmi piacere. Non è tanto quello che gli si rimprovera abitualmente (il suo stile, la sua brutalità, la sua volgarità) che mi sconvolge, perché penso che sia invece ciò che gli vale di essere apprezzato da molti americani, quello che ci si ostina a non capire da questa parte dell’Atlantico. È piuttosto che il suo progetto mi sembra nebuloso, che la sua politica estera è a mio avviso esecrabile e che l’uomo non è adatto a guidare quella che rimane (almeno provvisoriamente) la prima potenza mondiale. Al giorno d’oggi ci sono fondamentalmente solo tre veri capi di stato nel mondo: Vladimir Putin, erede dell’ex impero russo, Xi Jinping, erede dell’ex impero cinese, e Recep Tayyip Erdoğan, che cerca di ricreare l’ex impero ottomano. Donald Trump ha senza dubbio delle qualità, ma non ha la dimensione di uno statista.
Allora, perché sostenerlo? Perché Joe Biden è cento volte peggio. Non per la sua personalità insulsa e stanca, ma per tutto ciò che rappresenta: l’Establishment, lo Stato profondo, la sottomissione all’ideologia dominante, l’immigrazionismo, il progressismo, il capitalismo deterritorializzato, il politicamente corretto, Black Lives Matter, i media mainstream, insomma quell’abominevole New Class di cui la strega Hillary Clinton era già rappresentante quattro anni fa. Per sbarrare la strada a Joe Biden e alla sua collega Kamala Harris (che avrebbe buone possibilità di succedergli durante il suo mandato), sarei persino pronto a votare Mickey!”.

Confesso, anzi dichiaro, che in questa serrata, lucida analisi quasi tutto mi convince e mi trova consenziente. Certo, non so se arriverei a votare Mickey: personalmente e caratterialmente, preferirei Donald Duck. Con tutto ciò, la sottintesa dichiarazione di de Benoist, che sarebbe disposto a votare Trump piuttosto che Biden, francamente mi ripugna. Per quel po’ che so degli USA (non proprio pochissimo: in fondo, ci ho lavorato per certi periodi, ho molti amici là, ci vado spesso) e soprattutto di me stesso – lo confesso: ho un fondo passionale e fazioso del quale non mi vanto ma che non sempre riesco a controllare –, forse finirei con l’esprimere un “voto di protesta”, cioè un non-voto, o con il non andar a votare. Lo confesso: non me ne vanto per nulla. Tuttavia a favorire il paradossale e strumentale “trumpismo” di de Benoist concorrerebbe anche l’ipotesi che esso in un modo o nell’altro valga ad affrettare quel definitivo tramonto dell’impero americano che, auspicabile e ineluttabile comunque, l’analista francese sembra ritenere più prossimo di quanto non creda, per esempio, l’équipe della rivista “Limes” i pareri del quale, anche se non sempre condivisibili, sono di solito attendibili.
Ma proprio in questo se le posizioni di Trump sono esiziali (specie, appunto, in politica estera), quelle di Biden e delle forze che stanno dietro di lui sono di gran lunga peggiori: una sua permanenza futura alla Casa Bianca sarebbe pericolosissima, inferiore solo per i rischi che ci farebbe correre una presidenza della signora Clinton la quale incarna perfettamente (e forse in misura esponenziale) il vecchio adagio secondo il quale, negli USA, le guerre le fanno regolarmente scoppiare i democratici. Vero è tuttavia che, dalla fine del secolo scorso, all’interno del Partito repubblicano si è verificata quella mostruosa metamorfosi della quale è stato sintomo il PNAC della cerchia neoconservative che portò George Bush jr. al potere: ormai, l’Elefante Blu non è più quello della politica “del piede di casa” contrapposta all’aggressività paludata di umanitarismo dell’Asino Rosso. Nell’analisi debenoistiana riguardante Biden e le forze ch’egli rappresenta e che lo sostengono, l’unica cosa a non convincermi è quello ch’egli definisce “immigrazionismo” e l’effettiva esistenza del quale non riscontro: anzi, la ritengo francamente un alibi complottistico. Che i migranti possano “essere utili” a qualcuno deciso a sfruttarne la presenza, d’accordo; che il loro multiforme movimento sia consapevolmente “guidato” da centri pronti a sfruttarlo economicamente o a inquinare etnoculturalmente il mondo occidentale, questo no. Resta il dovere di far di tutto per disciplinare il movimento immigratorio: ma ciò non può risolversi nell’adozione di misure disumane che ci disonorerebbero. Il punto è semmai – soprattutto per l’Africa – la necessità di spezzare rottura dell’infausto triangolo di complicità tra le lobbies internazionali che gestiscono le ricchezze del continente africano razziandole senza pietà, i corrotti governi africani che consentono lo sfruttamento indiscriminato e se ne rendono corresponsabili e, infine, i governi delle grandi potenze che occupano come membri permanenti il Consiglio di Sicurezza dell’ONU e gestiscono cinicamente il loro “diritto di veto” vanificando qualunque progetto risolutorio da parte delle Nazioni Unite. Siamo lontanissimi dall’avviare al riguardo una soluzione: già molto sarebbe cominciar a diffondere queste realtà, a farle conoscere, a renderle di pubblico dominio.
Ma torniamo a de Benoist: egli ha ribadito la sua convinzione secondo la quale ormai il centro del gioco politico mondiale si è di nuovo attestato nei tre continenti del vecchio mondo: il great game del XXI secolo è dominato dalle tre potenze “imperiali” cinese, russa e turca, in un assetto “triangolare” in cui il jolly, o se si preferisce la plaque tournante, è costituita dalla politica “neo-ottomana” di Erdoğan.
Le osservazioni di de Benoist introducono a una serie di considerazioni politiche e geopolitiche di grande interesse. Si vanno sempre più insistenti le voci relative al “sogno” del nuovo sultano: riportare a Istanbul la capitale della Turchia, spostandola da Ankara nella quale egli ha pur fatto costruire, pochi anni fa, una favolosa residenza presidenziale. Ma egli non ignora affatto – al contrario! – che tale mossa (a parte le difficoltà d’ogni genere, dalle politiche alle economiche alle militari alle diplomatiche) espliciterebbe un definitivo distacco dai presupposti kemalisti sui quali la Turchia moderna è fondata: con conseguenze sui piani interno e internazionale difficilmente calcolabili. Essa inoltre costituirebbe una più dura sfida alla compagine cristiano-ortodossa, che ha nella Nuova Roma il suo venerabile centro simbolico e che non ha ancora metabolizzato il vulnus nei suoi confronti del ritorno di Santa Sofia al ruolo di moschea. E sarebbe infine un nuovo atto di ostilità contro la Russia di Putin che considera la “Terza Roma”, Mosca, strettamente legata alla “Seconda Roma” sul Bosforo. L’ostilità tra Russia e Turchia moderne è un dato costante nella geostoria e nella geopolitica eurasiatiche dell’ultimo mezzo millennio: e ad esse si connette il complesso quadro d’un equilibrio di alleanze e di reciproche simpatìe che collega la Santa Madre Ortodossa alla Grecia (nonostante la rivalità tra i due patriarcati) e la Santa Madre Slava ai paesi slavi ortodossi, nonostante le persistenti ombre determinate dal ricordo dell’egemonia sovietica e la politica statunitense che – dalla Georgia all’Ucraina alla Bielorussia – da anni sta lavorando alla destrutturazione dei confini dell’impero putiniano.
Ora, il gioco si sta incentrando sul Mediterraneo, dove sempre più presenti sono la Russia e soprattutto al Cina con il progetto One Belt One Road e dove l’aria si fa più rovente a causa dei due contrapposti progetti di gasdotto. Qui, il ruolo di Erdoğan è centrale: per certi versi potrebbe esser favorevole al progetto a testa saudito-israelo-americana, che lo collocherebbe una volta di più su un campo avverso rispetto alla Russia (secondo i più sacri parametri geopolitici secondo i quali Russia e Turchia sono costantemente avversarie) ma per altri dovrebbe avvicinarlo a Cipro e quindi alla Grecia, cosa per lui improponibile; tantopiù che in questo momento egli è ai ferri corti con la NATO.
Ma ecco entrare a questo punto di nuovo l’“impero americano” che, come non cessa di ricordarci la solerte équipe della rivista “Limes”, può anche essere in difficoltà ma è tutt’altro che tramontato. Quello USA-Israele-Arabia saudita è ormai l’asse portante della politica vicino-orientale, in relazione al quale tutte le potenze dell’area, se non del mondo, sono obbligate a ordinarsi: o per appoggiarlo, o per opporvisi. Un’ulteriore minaccia, rispetto alla quale – torna ad aver ragione de Benoist – una Hillary Clinton al potere sarebbe molto più pericolosa per l’equilibrio planetario. Già Obama, premio Nobel “a scatola chiusa” per la pace, sarà stato uomo pacifico ma durante il suo governo si dimostrò ben poco pacifista e non riuscì nemmeno (con tutte le buone intenzioni) a chiudere il carcere di Guantanamo, una vergogna sul piano del diritto internazionale e dei diritti umani. La politica vicino-orientale di Trump è stata disastrosa specie nell’appoggio ch’egli ha fornito alle dissennate scelte di Netanyahu, lesive nei confronti dell’equilibrio del mondo e in assoluto della giustizia. Ma le forze che hanno consentito al governo israeliano di collocarsi con decisione in contrasto rispetto alle indicazioni della comunità internazionale sono ben più decisamente influenti nel campo del Partito Democratico e quindi fra coloro che circonderanno presumibilmente Biden e che saranno in buona parte dei proconsoli della potentissima Hillary Clinton Corporation. Un rischio in più per il mondo: e una ragione per tener conto del parere di de Benoist?

Ecco L’intervista a Alain de Benoist su L’Agorà della polis

Alain de Benoist: «La vittoria di Donald Trump è auspicabile, per mancanza di qualcosa di meglio…»

 

Le elezioni presidenziali americane si stanno avvicinando velocemente. A titolo personale, lei auspica la rielezione di Donald Trump? Un secondo mandato di questo presidente le farebbe piacere, anche solo per vedere la faccia dei suoi avversari, americani ed europei?

Auspico la sua rielezione, ma per difetto o in mancanza di meglio. Come lei sa, il personaggio non ha molto da farmi piacere. Non è tanto quello che gli si rimprovera abitualmente (il suo stile, la sua brutalità, la sua volgarità) che mi sconvolge, perché penso che sia invece ciò che gli vale di essere apprezzato da molti americani, quello che ci si ostina a non capire da questa parte dell’Atlantico. È piuttosto che il suo progetto mi sembra nebuloso, che la sua politica estera è, a mio avviso esecrabile, e che l’uomo non è adatto a guidare quella che rimane (almeno provvisoriamente) la prima potenza mondiale. Al giorno d’oggi ci sono fondamentalmente solo tre veri capi di Stato nel mondo: Vladimir Putin, erede dell’ex Impero russo, Xi Jinping, erede dell’ex Impero cinese, e Recep Tayyip Erdoğan, che cerca di ricreare l’ex Impero ottomano. Donald Trump ha senza dubbio delle qualità, ma non ha la dimensione di uno statista.

Allora perché sostenerlo? Perché Joe Biden è cento volte peggio. Non per la sua personalità insulsa e stanca, ma per tutto ciò che rappresenta: l’Establishment, lo Stato profondo, la sottomissione all’ideologia dominante, l’immigrazionismo, il progressismo, il capitalismo deterritorializzato, il politicamente corretto, Black Lives Matter, i media mainstream, insomma quell’abominevole New Classe di cui la strega Hillary Clinton era già rappresentante quattro anni fa. Per sbarrare la strada a Joe Biden e alla sua collega Kamala Harris (che avrebbe buone possibilità di succedergli durante il suo mandato), sarei persino pronto a votare Mickey!

Ma Trump ha ancora una possibilità di vincere?

Io lo credo. Ho proposto più volte di distinguere tra il personaggio di Donald Trump e il fenomeno trumpista, che è soprattutto un riflesso populista di contestazione di tutto ciò che rappresenta l’Establishment. Trump è discutibile, ma il trumpismo è un’altra cosa. Tenuto conto di tutte le proporzioni, si potrebbe paragonarlo a quella che da noi si chiama «la Francia periferica». Gli americani sono estremamente diversi dagli europei (molto più di quanto credano questi ultimi), ma lo schema di base è lo stesso: le classi popolari contro le élite globalizzate, i sedentari contro i mobili, il popolo contro i cittadini del mondo, il basso contro l’alto.

Negli Stati Uniti d’oggi, questa opposizione si è cristallizzata per dare origine a due blocchi che non si parlano nemmeno più. Da una parte e dall’altra, non si vuole più solo vincere le elezioni, ma annientare quelli che stanno di fronte. Vuole una cifra rivelatrice, persino sbalorditiva? Il 15% dei repubblicani e il 20% dei democratici ritengono che l’America starebbe meglio se i loro rivali «morissero». Mai visto prima. È che la politica è cambiata. I politici negli Stati Uniti non corrono più alle elezioni per promuovere le loro capacità, ma come donne, come omosessuali, come afroamericani, come ispanici, etc. L’identity politics, alimentata dal politicamente corretto, ha invaso tutto. Ciò significa che le questioni politiche sono ormai subordinate alle sfide culturali e antropologiche.

Ecco perché, contrariamente a quanto accadeva in passato (quando i programmi dei repubblicani e dei democratici potevano sembrare più o meno indistinguibili, soprattutto ai nostri occhi), tutti i sondaggi mostrano che questa elezione presidenziale è giudicata dagli americani come di eccezionale importanza (l’87% parla di un punto di svolta irreversibile), e soprattutto perché tra loro sono pochissimi gli indecisi. Questo è il motivo per cui i due candidati non cercano tanto di accaparrarsi i sostenitori del loro avversario quanto di consolidare i loro rispettivi campi. Ed è anche il motivo per cui il primo dibattito Trump-Biden si è concluso con uno scambio di ingiurie di una violenza (verbale) ancora impensabile da noi. Che sia il trumpismo o la Nuova Classe a prevalere, sono in gioco concezioni del mondo differenti.

Quale bilancio trarre da questi quattro anni di trumpismo? La sua rielezione sarebbe una buona notizia per gli Stati Uniti e, soprattutto, per la Francia e per l’Europa?

Il bilancio è difficile da valutare. E’ indubbiamente migliore di quanto dicono gli avversari di Trump, ma peggiore di quanto dicono i suoi sostenitori. Perché Trump ha trascorso una notevole quantità di tempo a cercare di sfuggire alle trappole in cui si cercava di farlo cadere, e ha potuto riuscirci solo navigando alla cieca fra i «consiglieri» di ispirazione opposta, ed è inoltre difficile sapere quali sono le iniziative che gli competono veramente.

Per quanto riguarda la sua politica estera – l’unica che dovrebbe interessarci -, il bilancio è francamente negativo. Trump non ama visibilmente l’Europa, in questo si distingue dai suoi predecessori solo per il fatto di non nasconderlo. All’inizio tentò di avvicinarsi alla Russia nella speranza di allontanarla dall’alleanza cinese, ma poiché non smise di essere accusato di essere «al servizio dei russi», vi rinunciò rapidamente. Il suo principale nemico è la Cina. L’asse che privilegia è l’asse Washington-Riyad-Tel Aviv, che soddisfa sia i neoconservatori che gli evangelici, ma che è perfettamente contrario agli interessi europei. Ma con Joe Biden sarebbe anche peggio. Ricorda ciò che François Mitterrand ha confidato a Georges-Marc Benamou: «La Francia non lo sa, ma noi siamo in guerra con l’America. Una guerra permanente, una guerra vitale, una guerra economica, una guerra in cui apparentemente non ci sono morti. Sì, gli americani sono molto duri, sono voraci, vogliono un potere assoluto sul mondo. È una guerra sconosciuta, una guerra permanente, apparentemente senza morte e, pertanto, una guerra alla morte».

(Intervista di Nicolas Gauthier ad Alain de Benoist sulle presidenziali americane, pubblicata sul sito Boulevard Voltaire il 15/10/2020, dal titolo: “Alain de Benoist : « La victoire de Donald Trump est souhaitable, faute de mieux… »”.

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