di Giovanni La Torre – 20 luglio 2018
Nella sua prima uscita pubblica Savona ha affrontato la questione delle competenze della Banca Centrale Europea soffermandosi in particolare sulla circostanza che non avrebbe poteri sul cambio. Gli ha risposto Bini Smaghi, che della Bce è stato componete del board fino all’avvento di Draghi (non potevano esserci contemporaneamente due italiani ai vertici dell’istituto). A mio avviso Bini Smaghi ha avuto buon gioco a controbattere che invece la Bce poteri sul cambio ce li ha di fatto attraverso la politica monetaria.
Non risulta chiaro a cosa in particolare si riferisse Savona, perché i tempi della variazione del tasso di cambio che avveniva con decreto, o comunque con decisione unilaterale di qualche autorità nazionale, nei paesi liberi sono finiti da un bel po’. Nel 1971 la dichiarazione unilaterale di inconvertibilità in oro del dollaro da parte degli Usa di Nixon equivaleva di fatto alla disdetta degli accordi di Bretton Woods da parte del detentore della moneta perno di tutto il sistema. Architrave di quel trattato era il sistema dei “cambi fissi”, e questi sì che richiedevano atti amministrativi da parte di quei paesi che non riuscivano più a reggere un determinato cambio. Da quel momento è andato sempre più affermandosi nel mondo dei paesi liberi, il sistema dei “cambi flessibili”, nel quale è il mercato, la domanda e l’offerta di una determinata valuta, a determinarne il valore (Attenzione: sto solo facendo la storia, se sia stato o meno positivo sarebbe un discorso troppo lungo che se mai faremo un’altra volta).
Con i cambi flessibili l’unico strumento in mano alle autorità monetarie per influire sul valore di una valuta è la politica monetaria, perché essa influisce sui tassi e quindi può determinare spostamenti di capitali che influiscono sulla domanda e offerta di una determinata moneta. La prova l’abbiamo avuta con il Qe di Draghi, il cui unico effetto è stato proprio quello sul cambio dell’euro, perché altri effetti sull’economia reale non ne ha avuti, checché ne dica la Bce nei suoi bollettini.
Sennonché, della svalutazione dell’euro ne ha beneficiato soltanto la solita Germania, che ha visto salire il surplus delle partite correnti verso l’estero alla cifra monstre di 300 miliardi l’anno e il credito verso gli altri paesi dell’eurozona a oltre mille miliardi (il famoso Target 2). L’ha riconosciuto più di una volta lo stesso ex ministro tedesco Schauble, addossando così la colpa del “surplus eccessivo” della Germania alla Bce. Ecco l’espressione che ancora non sento sulla bocca dei nostri governanti, neanche i “nuovi”: “surplus eccessivo”, di cui continua a macchiarsi la Germania contravvenendo a precisi punti dei trattati europei, i quali dicono che esso non può superare per più di tre anni di seguito il 6% del Pil, limite che la Germania viola abbondantemente dal 2007 senza che nessuno gli chieda di rientrare.
Come ho scritto altre volte, finché quel rientro non verrà imposto, la Germania costituirà sempre una “spugna” per tutte le politiche di rilancio che venissero attuate nell’eurozona, siano esse maggiori deficit di bilancio o svalutazioni dell’euro: questo sia presente alla mente degli attuali governanti che si accingono a prendere misure di rilancio della domanda: esse serviranno soprattutto a far aumentare le importazioni dalla Germania, se non si pone la questione del “surplus eccessivo”.
Tornando a Savona, la sua stecca sta non solo nel fatto che poteri amministrativi diretti a cambiare il cambio non li usa più nessuno nel mondo libero (forse ha anche confuso Omt e Qe, ma sorvoliamo), ma soprattutto che la questione della manovrabilità del cambio nell’eurozona va posta dopo che si è imposto alla Germania il rientro dal surplus eccessivo, altrimenti va solo a suo beneficio. È strano che questo nuovo governo non abbia ancora posto il problema in Europa.


