di Alfredo Morganti – 18 giugno 2019
L’attimo fuggente per scomporre il PD
Avviare la scomposizione del PD serve anche a evitare che, a breve, questo partito comunque deflagri, scagliando attorno a sé pezzi e pezzetti come bombe a grappolo. Scuotere l’albero diventa essenziale, dunque, prima che un soffio di vento lo faccia crollare indosso al possibile scrollatore. Come sempre la politica è spazio, territorio, terreno di manovra, ma è soprattutto tempo. Kairos. Ossia individuazione dell’attimo ‘giusto’, per certi aspetti ‘supremo’, comunque fuggente. Anche in ciò si manifesta il senso della politica stessa come prassi, come azione e pratica quotidiana, in base a tattiche e strategie che non vanno concepite come procedure sequenzialmente astratte, ma come attività conseguenti, scandite secondo tempi inoppugnabili. Una prassi che non vuole vuoti, né lacune, né riluttanza. Compito supremo del gruppo dirigente del PD, adesso, è quello di salvare le energie politiche contenute soprattutto alla base, liberandole dall’involucro ingombrante che le comprime, per quanto appaia fragile, leggero, quasi impolitico. Prima che queste energie, dicevamo, divengano spezzoni scagliati mortalmente qua e là. Saprà l’attuale leadership essere adeguata a questo compito invero molto complesso? È la domanda essenziale, alla quale confesso di non saper ancora rispondere. Vedremo alla prova dei fatti.
Carlo Bertini per “la Stampa”
«Sono furibondo io che sono uno degli eletti, figuriamoci i nostri militanti. Ho detto che mi vergogno di questo partito perché non so come tornare nel collegio dai miei elettori: cosa gli dico? Che siamo stati uniti per un mese solo per le europee?». Così Carlo Calenda si sfoga con gli amici che in queste ore lo interrogano sul suo futuro. Ansiosi di sapere se darà vita ad una sua formazione affiancata al Pd oppure no.
«Nel Pd non mi paiono particolarmente favorevoli, ho avuto risposte tiepide. Le persone da candidare sono fuori dal Pd e andrebbe fatta un’ alleanza larga come quella per le europee. Decidano loro, ma tirino fuori un piano. Hanno altre strategie? Se il mio piano non va bene, ok, ma qualcosa va deciso, ur-gen-te-men-te, perché a settembre si va a votare».
Ecco, in un clima da Guerra dei Roses, in mezzo al frastuono dei petardi sparati in rete dai renziani contro il segretario, c’ è chi è arci convinto che le elezioni siano alle porte e che non si possa perdere tempo. Lo è Calenda, che bolla come «sbagliata la segreteria di Zingaretti, se non altro perché mettere a capo delle riforme uno che fu contro il referendum è un segnale di scomunica anche a Gentiloni, che fece la battaglia per il sì: non si capisce il senso».
Il creatore di «Siamo Europei» vorrebbe vedere intorno a un tavolo i big del Pd per varare «un governo ombra guidato dal presidente del partito Gentiloni, impegnato a stanare Di Maio su ogni cosa e con le dieci personalità più forti in grado di parlare al Paese».
MARIA ELENA BOSCHI E LUCA LOTTI
A temere le urne è invece Zingaretti, preoccupato di non avere il tempo necessario per organizzare il suo campo: il segretario Pd vede il viaggio di Salvini negli Stati Uniti come segnale di un rompete le righe: «Se ne va negli Usa a dire che da noi si va a votare: “Sarò il vostro punto di riferimento in Italia” avrà detto agli uomini di Trump», è la convinzione che hanno al Nazareno.
E ora che il rischio elezioni si fa più concreto, con voci di rottura entro metà luglio, le tensioni tra gli scranni del Pd nei due rami del Parlamento lievitano, perché i renziani sono certi di esser fatti fuori dalle liste elettorali. E vedono come il fumo negli occhi un’ apertura di dialogo con i Cinque stelle. Alzano il tiro e sparano sul segretario sperando di intimidirlo, avvertendolo così che rischia di andare al voto con un partito spaccato, se non darà loro garanzie. Ecco la vera posta in gioco: più dei posti al sole nella segreteria che nessuno aveva chiesto, a infiammare gli animi è la prospettiva di posti al sole nelle candidature nei collegi che molti renziani sono certi di perdere. Tanto più ora che Lotti è caduto in un cono d’ ombra azzoppando di fatto la corrente Base riformista che raggruppa una settantina di parlamentari renziani.
Quindi Zingaretti oggi proverà a ricucire la pax interna, «farò uno sforzo per ricostruire uno spirito unitario». Ma è irritato, «perché avevo parlato con Giachetti che mi ha detto di non voler entrare in segreteria, poi con Guerini, che ha detto “Grazie in segreteria no, ma vediamo casomai degli incarichi nei forum tematici”. Insomma, tutti sapevano e poi…». Per questo il sospetto dello stato maggiore del Pd è che in un’ ottica di voto a breve, «questa dell’ ostracismo nei confronti dei renziani può essere una buona scusa se vogliono andarsene. E se invece decidono di restare dentro il Pd, un modo per trattare meglio sui collegi». Ma dopo aver chiesto loro se potevano liberare un posto da capogruppo e aver visto che gli uffici di presidenza dei gruppi «sono rimasti identici, senza cambiare un vice, un tesoriere, niente», Zingaretti ha fatto le sue scelte.
E oggi in Direzione chiederà un voto sulla sua relazione. Uno dei convitati di pietra, oltre a Matteo Renzi, sarà Carlo Calenda, oggetto degli strali renziani.
«Sono a Bruxelles, ma tanto lo so che si scanneranno. Io sono garantista ma non significa che comportamenti del genere non vadano criticati. Lotti ha sbagliato e non riesce neanche ad ammetterlo, suvvia». Ma il nodo resta quello di fare presto.
Perché «devi preparare un’ opposizione più incisiva e una coalizione elettorale. Un governo ombra capace di stare non solo in Parlamento, ma sui media.
Che non faccia riferimento alle correnti del Pd ma a chi ha capacità di parlare al Paese».
Un omaggio a una finta unità
Poteva essere l’occasione di una sterzata politica. Invece la direzione pd di Zingaretti ritrova l’unità sullo stato di necessità del presente. Lotti nominato solo una volta, per ringraziarlo della sua autosospensione
di Alessandro De Angelis su Huffpost
A volerla leggere ricorrendo ai classici, è difficile non scorgere un’antica sapienza morotea, in questo metodo di Zingaretti che, al dunque, evita lo strappo, ricompone in nome dell’unità, predilige l’evoluzione graduale alla dialettica. C’è, sempre a volerla leggere con i classici, tutto questo nelle dimissioni di Lotti ottenute senza chiederle, e lodate, anche oggi, come un gesto di “responsabilità” che “preserva la credibilità del partito in un momento più delicato”.
E se l’obiettivo era quello di uscire dalla direzione con un partito almeno non formalmente diviso e lacerato, questo obiettivo è stato raggiunto, sia pur con una dose di fisiologica ipocrisia e tanti non detti, al limite del surrealismo con Lotti che resta, nel corso del dibattito, pressoché “innominato” e senza che sia stato affrontato lo scandalo che da giorni riempie le pagine dei giornali. L’obiettivo, dicevamo, è stato raggiunto ricorrendo all’armamentario retorico più classico: in nome del pericolo di una destra rocciosa e incombente, della necessità di preservare l’unico baluardo democratico, nella riscoperta (a parole) dell’antica “vocazione maggioritaria”, in tante dichiarazioni di principio condivise anche dalle minoranze spaventate dal ritorno al voto, ossessionate dal retro-pensiero delle liste, spaesate dall’abbandono del loro ex leader, Matteo Renzi che, da questa vicenda che ha coinvolto il suo braccio destro (e sinistro), esce indebolito pure lui. A ben vedere, proprio i suoi compagni di corrente hanno evitato di immolarsi in una crociata per difendere l’onore di Lotti, sacrificando il granitico garantismo sull’altare dell’opportunità politica.
La direzione di oggi racconta che, in definitiva, il segretario esce, con un occhio agli equilibri interni, più rafforzato, perché di fatto può contare su una nuova maggioranza interna, sancita dal mite intervento di Lorenzo Guerini: “Colgo l’invito di Zingaretti alla responsabilità comune. Mettiamo da parte le discussioni sul passato, non possiamo continuare la discussione su quello che è stato. L’egemonia di Salvini ci impone la discussione sul futuro”. Ed effettivamente il prezzo dell’unità è questo “scurdammoce o passato” che riguarda le sconfitte e le responsabilità di questi anni, ma anche, evidentemente, il passato più recente, perché c’è un filo che unisce il “patto del Nazareno”, tra i più oscuri della storia repubblicana e la disinvoltura sul caso Etruria, la complicità ostentata con Verdini e gli incontri di Lotti con Palamara in una suite per decidere i capi delle procure che lo indagano.
È il filo di una concezione del potere che non ha regole e limiti, vissuto con l’ebrezza dell’onnipotenza e con la pretesa dell’impunità. A volerla leggere, invece, con altri classici della giovinezza, si potrebbe ricordare quel che nel Pci si spiegava sin da quando si indossavano i calzoni corti. E cioè che l’unità, quella vera, è un fatto politico e culturale, altrimenti è una banale rimozione, buona per tirare a campare, ma insufficiente per chi vuole cambiare il mondo. In tal senso, la tanto decantata unità odierna assomiglia molto a una palude malmostosa, in cui il segretario ha rinunciato a cogliere l’occasione di uno scandalo etico per un deciso cambio di passo, una plastica discontinuità, un afflato “sentimentale” verso quel popolo che ha abbandonato la sinistra perché nauseato e arrabbiato proprio verso “quella” concezione del potere. E gli altri si sono rintanati chi alla ricerca di uno strapuntino di sopravvivenza, chi in attesa di un logoramento di Zingaretti alle prossime amministrative per poi rialzare la testa.
Ecco, non c’è bisogno di scomodare Enrico Berlinguer, più volte citato e ricordato in questi giorni in cui si è celebrato il 35esimo anniversario della morte, per constatare che la rimozione riguarda proprio la “questione morale”. Che è poi – ricordate “onestà, onestà” – il fuoco su cui è divampata la rabbia contro partiti percepiti come mera conservazione dell’esistente, come establishment, chiuso e ovattato come una stanza d’albergo. Quei partiti che, 35 anni fa, Berlinguer fotografava come “macchine di potere e di clientela”, che “non fanno più politica” ma “gestiscono interessi, i più contraddittori, talvolta anche loschi, senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani”, “federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un boss e dei sotto boss”, che “hanno occupato enti locali, gli enti di previdenza, le banche e le aziende pubbliche, gli ospedali, la Rai”. Si riferiva alla Dc e al Psi. Difficile, rileggendolo, non pensare a Etruria, al Csm, alle riunioni notturne di Lotti e Ferri con i membri del Csm e i capi-correnti togati per decidere il nuovo procuratore di Roma.
Vista dall’esterno – sia detto senza demagogia – il ringraziamento a Lotti per la responsabilità dimostrata col passo indietro è semplicemente incomprensibile, come non regge l’ortodossia garantista, come se la questione fosse una vicenda penale e non di opportunità politica. Appunto, una questione morale. Ancor più incomprensibile per le modalità con cui il “passo indietro è avvenuto”, con una lettera intrisa di veleno, dal vago sapore minatorio. Parliamoci chiaro. Questa era l’Occasione per il neosegretario per “voltare pagina” (questo era lo slogan delle primarie), collocando il nuovo corso sul terreno di una salutare e catartica indignazione morale, sia pur con stile che lo contraddistingue perché tra il pretendere le scuse di fronte a comportamenti che offendono un patrimonio di valori e i ringraziamenti ci sono ragionevoli vie di mezzo. È chiaro che ha prevalso il rovello unitario e il timore che una spaccatura potesse essere prodromica di una scissione. E ne avrà avute le sue buone ragioni, anche se il dubbio è legittimo perché si può rompere su tante cose, ma è assai complicato dire “io me ne vado” perché “è giusto brigare sulle nomine del Csm e sui vertici delle procure che mi indagano, ma il mio partito lo considera inopportuno”. Il Pd è un partito avvezzo ad assecondare il vento che tira, per opportunismo più che per convinzione, fatto di abili navigatori capaci di adattarsi ad ogni stagione, dal bersanismo al renzismo al post-renzismo, e ora nella pax zingarettiana, ma quello che sembra un successo tattico per il neo-segretario è un rischio potenziale, nella misura in cui l’unità si ritrova a discapito della chiarezza di fondo. Perché la scissione vera, mai ricomposta (si è visto a Cagliari), è con una parte di quel popolo perso in questi anni, disilluso nelle tante periferie geografiche ed esistenziali. Che se ne frega della melassa politicista, misura la novità in distanza da ciò che ha rifiutato, e chiede una novità. Radicale, vitale, sentimentale.