Il rilancio della domanda interna per uscire dalla recessione

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Guglielmo Forges Davanzati
Fonte: Nuovo Quotidiano di Puglia

La pandemia in corso ha messo in evidenza alcune contraddizioni del modello di sviluppo che si è determinato nel corso degli ultimi decenni, con particolare riferimento al caso italiano. Ci si riferisce, più in dettaglio, al fatto che l’Italia ha scommesso su un modello di crescita trainato dalle esportazioni e dunque fortemente dipendente dalla domanda estera e anche dall’andamento delle diseguaglianze su scala globale. Ciò a ragione del fatto che i nostri prodotti esportati sono prevalentemente collocati in settori tecnologicamente maturi – la filiera agroalimentare e i beni di lusso – e che la loro vendita all’estero si rende possibile laddove esista un nucleo significativamente elevato di famiglie con redditi molto alti.

La pandemia si è associata, per contro, a fenomeni di de-globalizzazione, con guerre commerciali palesi soprattutto fra Cina e Stati Uniti. Ha fatto molto discutere, a riguardo, la ripresa del tema della guerra fredda che sembrava relegato a un’altra epoca storica. Non si tratta della guerra fredda così come l’abbiamo conosciuta, ma di una guerra giocata a colpi di dazi. E’ una forma di neo-mercantilismo che si manifesta attraverso l’imposizione di dazi sulle importazioni e che genera un crollo della domanda globale, che ovviamente si traduce in minori esportazioni anche italiane: – 40% ad aprile 2020 rispetto all’anno precedente, su fonte ISTAT.

L’economia italiana arriva alla pandemia del coronavirus già in recessione e soprattutto in una traiettoria di declino che data almeno dalla svolta dei primi anni novanta.

Si tratta di un arco temporale lungo, caratterizzato da una continua caduta della domanda interna e del tasso di crescita della produttività del lavoro. E si tratta di una stagione caratterizzata dalla sostanziale assenza di politiche industriali e dalla fiducia nelle privatizzazioni e nella deregolamentazione dei mercati, in particolare del mercato del lavoro.

La crisi sanitaria sta mettendo seriamente in discussione questo modello. Lo dimostra il fatto che vi è oggi un consenso diffuso sul fatto che il debito pubblico possa aumentare (si stima, a riguardo, un valore del 160% in rapporto al Pil in vista di un valore del 60% in rapporto al Pil come previsto dal Trattato di Maastricht) e che debba aumentare per effetto dei trasferimenti monetari che il Governo Conte bis ha varato e sta varando a favore di famiglie e imprese.

Le convinzioni che sono state alla base delle politiche economiche di questi ultimi decenni sembrano vacillare. Le politiche di deregolamentazione del mercato del lavoro, anziché far crescere l’occupazione , hanno avuto tendenzialmente effetti negativi; così come le politiche di consolidamento fiscale, lungi dal ridurre il rapporto debito pubblico sul Pil, lo hanno fatto aumentare.
Sembra cambiata, in tal senso, la vulgata per la quale l’Italia ha un debito pubblico eccessivamente alto. O comunque il dato appare scontato e, salvo rare eccezioni, non si leggono proposte di riduzione del debito in rapporto al Pil in questa fase. Il problema viene spostato all’esito delle negoziazioni in ambito europeo e dunque ai meccanismi che lì si potrebbero trovare per aumentare i finanziamenti destinati ai singoli Paesi per far fronte all’emergenza.

In effetti l’Italia ha un debito pubblico superiore alla media dell’eurozona e alla media OCSE e questo fatto ha contribuito a frenare la crescita perché i tentativi di riduzione sono passati attraverso maggiore tassazione sul lavoro dipendente. L’incremento della tassazione sui salari ha, di fatto, compresso i consumi e la domanda interna, con conseguente recessione (anche pre-COVID) e aumento del tasso di disoccupazione.

In sostanza, la malattia italiana consiste nell’avere una bassa domanda interna non compensata da una dinamica della domanda estera di importo sufficiente. La crisi sanitaria – e le guerre commerciali in atto – ovviamente amplifica questo fenomeno, giacché riduce le esportazioni nette. Va poi aggiunto che parte delle nostre esportazioni non sono altro che vendita di prodotti intermedi alla Germania o ai Paesi satelliti, così che la nostra crescita finisce per dipendere anche dagli ordinativi che arrivano dal nord d’Europa.

Se le crisi costituiscono un’opportunità e se si prende atto degli errori compiuti, occorre rivedere i paradigmi che hanno sorretto le politiche economiche degli ultimi anni: accettare l’idea che non è la precarizzazione del lavoro a generare crescita, così come non lo è ridurre la spesa pubblica. Ma, nel caso italiano soprattutto, occorre prendere atto che un modello di crescita trainato dalle esportazioni, nelle condizioni date e considerando come è fatta la nostra struttura produttiva, può essere inefficace o finanche controproducente.

Occorre dare stimolo alla domanda interna attraverso investimenti pubblici soprattutto nella ricerca scientifica ad alto impatto moltiplicativo. Nel far questo, occorre superare la logica di breve periodo che ha fin qui guidato le scelte di politica economica nel nostro Paese.

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