La morte, il destino comune, la fratellanza

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Alfredo Morganti

di Alfredo Morganti – 12 luglio 2018

Luca Savio aveva 37 anni, era un operaio delle cave, aveva un contratto di 6 giorni. Questi 6 giorni bastavano a classificarlo come ‘occupato’ nelle statistiche del Ministero del Lavoro. Dell’altro non sappiamo nemmeno il nome, ma era un ragazzo afgano di 23 anni, rimpatriato dalla Germania il 4 luglio scorso. È morto suicida a Kabul. Per alcuni, il primo esprime la ‘vera’ sofferenza sociale, l’altro no, al massimo gli si concede un riconoscimento umanitario. Sempre per alcuni, il secondo va aiutato a casa sua, dove deve rimanere sennò ci ruba il lavoro oppure andrebbe a costituire l’esercito di riserva di un ciclo produttivo che non c’è quasi più. La sinistra ‘vera’ e soprattutto la destra ‘verissima’ dividono i destini di queste vite spezzate, li contrappongono, ergono un confine nel cuore di quella che è invece una fratellanza sociale, umana, di bios, di sofferenza, di disagio, di sfruttamento. Li accomuna infine il destino tragico delle loro vite: un finto occupato l’uno (6 giorni non sono nulla, fanno solo statistica di regime), un vero disgraziato l’altro, morti entrambi di povertà e di disagio sociale.

Sulla loro divisione si giocano le politiche della destra cattiva e quelle della sinistra che si rappresenta come la ‘vera’ sinistra. Sulla tragedia delle loro tragedie scisse e divaricate si edificano senza posa arrembanti fortune politico-mediatiche o minuscoli destini personali. Il senso di tutto ciò, perché c’è sempre un senso anche dinanzi alla palese insensatezza, è che i ‘poveri’ sono divisi: a ognuno di loro viene fatta indossare la ‘camiceta’ del proprio Paese, vengono compressi in squadre l’un contro l’altra armata, formano contrapposti eserciti propagandistici di riserva in mano a politiche astratte e scriteriate. L’unità del popolo vale solo per popoli divisi tra loro: ecco la contraddizione più palese. Quando invece l’umanità è una sola, in special modo se si tratta di un’umanità sofferente, sottomessa, precaria. Se proprio partita di calcio deve essere, io direi allora la squadra degli sfruttatori, dei padroni e dei ricchissimi contro il Resto del Mondo, senza distinzioni di etnia, nel riconoscimento comune della precarietà e della subordinazione che uccidono. Sarebbe di sicuro una bella sfida. Io già so chi vincerebbe.

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