Fonte: Ideologia Socialista
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di Maddalena Celano
L’Accumulazione Originaria: ovvero il lavoro non retribuito delle donne
L’origine del patriarcato nell’ economia arcaica-schiavista: il contributo del femminismo materialista francofono
Esistono due tipi di femminismo marxista: uno che cerca di applicare gli strumenti marxisti alla questione delle donne e un altro che cerca di aggiungere, alla riflessione marxista sulle classi, spiegazioni culturali o ideologiche sul ruolo e sul destino sociale delle donne. Una posizione intermedia si concentra sul rendere visibile e analizzare ciò che accade alla sfera domestica, in termini di lavoro che chiamano “riproduttivo”.
Ma quando si applica la logica marxista riguardo a ciò che si considera “economico / produttivo”, alcuni individui faticano a riconoscere come pienamente produttivo ciò che ha a che fare con le attività secolari delle donne (la cura e la riproduzione della vita). Al contrario, il femminismo materialista francofono, che costituisce una corrente specifica all’interno del femminismo materialista, cerca di pensare alla totalità sociale, mettendo al centro il lavoro svolto dalle donne o, più precisamente, quelle che chiama “relazioni sociali [rapporti] di sesso” che organizzano la distribuzione delle donne e degli uomini rispetto al lavoro. Il femminismo materialista francofono sottolinea l’esistenza e la centralità di queste “relazioni [“rapporti sociali di sesso”, rendendo visibile l’esistenza di uno specifico modo di produzione, quello patriarcale]. Si basa centralmente sul lavoro di Colette Guillaumin (2005) e sul suo concetto delle relazioni strutturali di sessualità o appropriazione di un gruppo socialmente creato e naturalizzato per questo scopo – la classe delle donne – differenziata dalla classe degli uomini.[1] L’appropriazione è caratterizzata dal possesso e dall’uso totale e globale di “corpi-come-macchine-forza-lavoro” (un altro concetto di Guillaumin), senza alcuna misura. Si differenzia quindi dallo sfruttamento, che implica la misurazione di una cosa chiamata “forza lavoro” separata dal corpo della persona. Perciò potremmo tranquillamente affermare che il ruolo delle donne, nel mondo sia produttivo che riproduttivo, somiglia più ad una sorta di rapporto di “schiavitù”, più che di mero sfruttamento. Per queste ragioni, generazioni di marxisti, hanno faticato a decifrare in maniera corretta il ruolo giocato dalle donne nei meccanismi produttivi. Ad esempio, il femminismo materialista francofono condivide con il marxismo una prospettiva materialista, storica e dialettica, quindi ci sono prossimità e possibili complicità e alleanze, ma allo stesso tempo mette in discussione radicalmente il marxismo, a differenza delle femministe marxiste classiche.
Dal momento che non si tratta solo di aggiungere la questione delle donne come qualcosa che completa la teoria, si pone un problema che non esisteva nel marxismo tradizionale: ovvero il ruolo giocato dalla sessualità e dalla riproduzione, nei giochi di potere.
La maggior parte del marxismo si occupa di superare l’ alienazione creata dal lavoro meccanico ed estraniato dal soggetto che lo esegue, postulando che i rapporti sociali più importanti siano i rapporti di classe tra la borghesia e il proletariato, che determinano tutto il resto. Così, il modo di produzione capitalistico avrebbe compreso e trasceso gli altri modi di produzione. La prospettiva femminista materialista francofona, come parte delle attuali teorie sulla razza (in particolare varie prospettive decoloniali), insiste nel dire che ci sono altre relazioni sociali di pari importanza e altri modi di produzione all’interno del capitalismo o accanto ad esso, che dovrebbe essere analizzato con lo stesso livello di profondità teorica. Nel caso dei rapporti tra generi sessuali, come nel caso di quelli di razza, vi sono persone che non possono separare la forza lavoro da se stesse, perché i loro corpi sono pienamente appropriati dai loro padroni. Appunto: le prospettive analizzate somigliano più ai rapporti arcaici schiavistici che alla moderna dialettica “servo-padrone” delle moderne società industriali. Sebbene Guillaumin non elabori questo concetto di “corpo-macchina-di-forza-lavoro”, personalmente credo che sia la chiave per approfondire la riflessione: credo che non dobbiamo solo abbattere il cosiddetto lavoro riproduttivo (in opposizione a quello “produttivo”), ma dobbiamo prestare particolare attenzione al lavoro della procreazione:
Negli ultimi trent’anni la relazione complessa tra corpo e macchina è stata frequentemente declinata al femminile, tenendo al centro la donna, le sue specificità, le sue caratteristiche estetiche, la sua capacità riproduttiva. A dare il via a questo dibattito tra autori e autrici che, partendo da prospettive ermeneutiche differenti, hanno prodotto riflessioni e suggestioni che hanno orientato il dibattito culturale “alto” e quello mainstream, è certamente Donna Haraway che, alla metà degli anni Ottanta, con il suo Cyborg Manifesto, ripensa il corpo della donna, le sue funzioni, immagina la sua evoluzione. L’ibridazione tra carne e macchina – il corpo cyborg – rappresenta un’occasione, la possibilità di superare il modello di pensiero binario (che oppone nettamente il maschile al femminile, il naturale all’artificiale) e la prospettiva essenzialista.
Questo tentativo di superamento dell’ordine simbolico patriarcale si è sempre di più confrontato da un lato con la necessità di una risistematizzazione dei saperi – dunque, in chiave epistemologica, un’attenzione specifica a una demistificazione del ruolo della Scienza e della Tecnica, un andare al di là di natura e cultura, binarismo che riproduce l’ordine del discorso anche in tempi di capitalismo neoliberista, e dall’altro con una necessità di approfondire i dispositivi al cui interno il corpo femminile è preso e reificato. La relazione tra corpo femminile e intervento tecnologico incrocia dunque una serie di questioni che, nei saggi contenuti nel dossier, vengono messe in luce in tutta la loro evidenza e complessità. Innanzitutto, troviamo il nodo del rapporto tra il lavoro di cura e le tecnologie di supporto, le quali però tendono a produrre effetti divergenti, da un lato sembrano poter proporre nuovi modelli trasformativi delle tradizionali relazioni sociali e di genere, dall’altro, inseriti all’interno di un’economia di mercato, rischiano di produrre nuove forme di assoggettamento e subordinazione. Il ritorno nella stringente attualità al dibattito sul lavoro di cura e più in generale sulla riproduzione sociale ci porta a riflettere sullo scollamento tra dimensione produttiva e riproduttiva e sull’invisibilizzazione del carico, dell’onere e della centralità della cura.
La questione dell’intervento tecnologico non è mai neutra e non potrebbe esserlo. Un nodo decisivo – e che viene affrontato da diverse prospettive e mediante differenti strumenti di indagine – è quello della maternità, luogo nel quale sempre più si incrociano istanze di intervento tecnico e manipolatorio e istanze di nuova naturalizzazione. Se in generale la richiesta sembra essere quella di una metamorfosi della madre e più in generale di una trasformazione, nella pensabilità e nella prassi, dell’antropogenesi e dell’antropotecnica, è anche vero che, all’interno delle questioni riguardanti la GPA, non si può non sottolineare come l’intreccio tra logica economica e di mercato e innovazioni tecnico-scientifiche possa portare al rischio di una messa a profitto e un limite alle possibilità di autodeterminazione.[2]
Propongo di mettere al centro i corpi con gli uteri in stato funzionale, poiché sono quelli che possono fornire tutte le forme di lavoro: il lavoro immediato (raccolta del campo di grano, risposta al telefono o costruzione di automobili) o lavoro di utilizzo differito (produzione di più macchine per sostituire la forza lavoro). Queste attività possono essere esercitate simultaneamente, ma allo stesso tempo sono parzialmente contraddittorie. E possono essere eseguiti sia in regime salariale (sfruttamento) che a titolo gratuito, sotto forma di appropriazione, che fino ad ora è stata la più frequente.
Un’altra caratteristica distintiva del femminismo materialista francofono è che concepisce il sesso come classe sociale. Ciò ne ha permesso la de-naturalizzazione già negli anni ’70, da un quadro molto diverso da quello emerso negli Stati Uniti in quegli anni come “sistema sesso / genere”.
In realtà la prospettiva sesso / genere non snatura, ma piuttosto mostra un livello che è sociale, di genere, ma non smette di considerare che questo genere sociale si basi su qualcosa di naturale, su una differenza biologica. Inoltre, non spiega perché le società costruiscono la disuguaglianza sociale su tale differenza biologica presumibilmente preesistente. Sembra che sia una coincidenza o un’assurdità. La prospettiva femminista materialista francofona, invece, mettendo al centro l’organizzazione sociale del lavoro, ci permette di comprendere il motivo di questa apparente assurdità: che alcuni vivono meglio (uomini) grazie ad altre che lavorano di più e per loro (le donne). Ai fini di questa organizzazione del lavoro, società ed epoche diverse creano gruppi (classi di sesso), personalità e corpi adatti a questa o quella posizione nella divisione sessuale del lavoro, promuovendo, fin dalla più tenera età, il dono del comando o la pazienza di pulire i bagni, il disgusto per il vomito dei bambini o l’orrore di sparare con le armi, le finte natiche o le gambe per andare in bicicletta per strada. In questa prospettiva, niente è naturale. Non si presume mai che ci siano femmine e maschi, ma piuttosto l’analisi inizia rilevando una divisione del lavoro (fattore sociale) e da lì analizza come le società riescano a collocare le persone in questa divisione del lavoro (un altro fattore sociale). Lo fanno attraverso leggi, attraverso molte pressioni materiali, attraverso la propaganda, marcando e plasmando corpi, intervenendo sui genitali se lo ritengono utile, o sui muscoli, attraverso il cibo, l’esercizio o l’immobilizzazione… In effetti, il primo lavoro di Guillaumin era proprio un’analisi della naturalizzazione della razza, non del sesso. Analizzò come storicamente, durante il modo di produzione schiavista delle piantagioni del XVIII secolo, fosse stato inventato un sistema di segni fisici “razziali” per differenziare un gruppo sociale a fini di appropriazione. Non hanno afferrato le persone, perché erano nere, per schiavizzarle: hanno ridotto in schiavitù le persone, hanno messo un segno sui loro corpi, con ferro rosso, e poi è stata fatta una sovrapposizione tra quel marchio e il popolo africano, quindi tra il popolo africano e una presunta “razza marchiata”.
In realtà, tutte le relazioni sociali strutturali si intersecano. L’intersezionalità, sviluppata soprattutto da Kimberlé Crenshaw, proviene invece da un’altra tradizione. La proposta è molto interessante; ma le formulazioni in cui razza, sesso e classe sono chiaramente denominate come effetti delle relazioni sociali strutturali mi sembrano migliori. Penso che l’intersezione tenda a collocare i problemi come personali, intrapsichici, di identità conflittuali, invece che riferirsi a strutture sociali. Preferisco prospettive che, al di là dell’individuo, dimostrino che le difficoltà che affrontiamo non nascano da prospettive personalistiche ma dall’organizzazione del lavoro che è la causa di determinate situazione.
-Ovviamente. Ci sono molti malintesi sul concetto di classe per le donne. Ci sono persone che pensano che sia essenzialista, ma no, al contrario. Da un punto di vista materialistico, le persone che chiamiamo (membri della classe delle donne), o uomini, sono coloro che condividono oggettivamente elementi comuni di posizionamento nella divisione sessuale del lavoro. Non significa che condividano tutto, o che siano identici, ma significa che condividono certe cose sulla base di una logica comune legata alla divisione sessuale del lavoro. Con questo intendo che le donne, come classe, esistono, ma questo tipo di sesso è attraversato da antagonismi (sociali e razziali), allo stesso modo in cui la classe sociale è attraversata da antagonismi di sesso e razza.
Al posto della visione vittimizzante, secondo la quale le donne sarebbero vulnerabili e deboli, quasi inutili, la questione andrebbe intesa al contrario: le donne sono attaccate perché importanti per la riproduzione sociale e l’accumulazione del capitale. Si attaccano le persone che lavorano più duramente e che costano meno, nel mondo capitalista, perché svolgono tutto il lavoro nelle case, nelle comunità e nel cosiddetto sistema produttivo. Secondo punto: è necessario vedere la violenza come qualcosa di eminentemente correlato a questioni economiche. Lo capiamo quando si parla di guerre: nessuno dice seriamente che gli Stati Uniti abbiano attaccato l’Iraq perché odino gli iracheni (anche se cercano di “montare” questo discorso come giustificazione a posteriori ). Tutti sanno che la guerra all’Iraq è stata fatta per il petrolio. È abbastanza chiaro che la violenza di Stato abbia cause economiche, come lo stesso accade nel caso della violenza degli uomini contro le donne. Non possiamo restare ciechi a questo. Un altro esempio: quando i bianchi colonialisti violavano o uccidevano gli schiavi neri, non lo facevano perché li odiavano. Sebbene vi fosse anche odio o pulsioni sessuali complesse, queste erano un effetto e una conseguenza della situazione molto perversa della schiavitù, ma non la causa della violenza dei proprietari terrieri sugli schiavi. Li violentavano per spaventarli e farli lavorare di più. Come ben sappiamo riguardo alla violenza di Stato, la violenza non ha a che fare con le pulsioni, ma con interessi materiali specifici. D’altra parte, la psicologizzazione della violenza sessista rende difficile comprenderne le cause. Rende invisibili le motivazioni degli uomini, intesi come maschi, e li fa passare per bestie quando, in realtà, sono semplicemente intelligenti: individualmente e collettivamente approfittano del lavoro delle donne. Questo è il nocciolo della questione: come gli uomini riescano a vivere meglio a spese delle donne, così come i borghesi vivono meglio a spese del proletariato e dei bianchi, a scapito delle persone razzializzate.
Il modo in cui il neoliberismo e la globalizzazione influenzano le forme di appropriazione contro la classe femminile
Il neoliberismo modifica il modo di vivere la sessualità, in modo complesso e diversificato a seconda delle società, dei luoghi e, ovviamente, anche secondo le logiche di classe e razza. Se volessimo fare ipotesi globali, una delle domande potrebbe essere: c’è una ricomposizione dell’equilibrio contraddittorio, tra appropriazione privata e collettiva da parte delle donne? La questione traccia un parallelo con i rapporti razziali e il modo in cui questi sono stati modificati, dalla fine del sistema legale della schiavitù e la trasformazione dei rapporti coloniali (le indipendenze del XIX secolo e quelle più recenti, anni ’60). In termini di razza, si è passati da un’appropriazione più privata in schiavitù a un’appropriazione più collettiva, del proletariato migrante della fine del XIX secolo. E ora del proletariato razzializzato, senza documenti, creato dalla criminalizzazione della migrazione postcoloniale. Se ciò fosse vero, significherebbe che il modo di produzione schiavista, che ha prodotto certi tipi di razze, è stato trasformato senza essere completamente scomparso, passando da forme private di appropriazione, a forme collettive di appropriazione. Ci sono evoluzioni tra una forma privata di appropriazione e una forma collettiva? Silvia Federici (2010), nel saggio il “Calibano e la Strega”, spiega come il progressivo dispiegamento del modo di produzione capitalistico fosse sostenuto non solo dalla colonizzazione e dal saccheggio dell’oro di Potosí, ma anche da un’altra forma di accumulazione primitiva consentita dall’accaparramento della forza lavoro delle donne, nell’Europa medievale, dove “la caccia alle streghe” ha aiutato la clausura delle donne in uno spazio familiare appena creato:
Calibano e la Strega presenta i temi principali di un progetto di ricerca sulle donne nella “transizione” dal feudalesimo al capitalismo che ho iniziato a metà degli anni ’70, in collaborazione con la femminista italiana Leopoldina Fortunati. I primi risultati sono apparsi in un libro che abbiamo pubblicato qui in Italia nel 1984: Il Grande Calibano. Storia del corpo sociale ribelle nella prima fase del capitale.
Il mio interesse per la ricerca era motivato all’inizio dai dibattiti all’interno del movimento femminista negli Stati Uniti, vertenti sulle origini delle particolari forme di oppressione di cui le donne sono state storicamente l’oggetto e sulle strategie politiche che il movimento avrebbe dovuto adottare per la nostra liberazione. Le principali posizioni teoriche e politiche con cui ci dovevamo confrontare a questo proposito erano quelle avanzate dalle due aree più importanti del movimento delle donne: le femministe radicali e le femministe socialiste. Tuttavia, dal mio punto di vista, entrambe non fornivano una spiegazione soddisfacente sulle origini dello sfruttamento sociale ed economico delle donne. Non condividevo la tendenza delle femministe radicali a far risalire la discriminazione sessuale e il potere patriarcale a strutture culturali transtoriche che si presumevano indipendenti dai rapporti di produzione e di classe. Per contro, le femministe socialiste riconoscevano che non si può scindere la storia delle donne dalla storia dei vari sistemi di sfruttamento e nelle loro teorie analizzavano la discriminazione sessuale a partire dal lavoro che le donne svolgono nella società capitalistica. Ma il limite della loro posizione era di non riconoscere la sfera della riproduzione come fonte di sfruttamento e creazione di plusvalore e quindi di attribuire l’origine della differenza di potere tra donne e uomini all’esclusione delle donne dallo sviluppo capitalistico – un assunto che ancora una volta ci obbligava a ricorrere a schemi culturali per dar conto della sopravvivenza del sessismo nell’universo delle relazioni capitalistiche.
È in questo contesto che ha preso forma l’idea di tracciare la storia delle donne nella transizione dal feudalesimo al capitalismo. La tesi che ha ispirato questa ricerca era stata articolata da Mariarosa Dalla Costa e da Selma James, oltre che da altre attiviste del movimento per il salario al lavoro domestico, in una serie di documenti che negli anni ’70 apparivano molto controversi, ma che col tempo hanno riformulato il discorso su donne, riproduzione e capitalismo. Fra questi, i più influenti furono Potere femminile e sovversione sociale (1972) di Mariarosa Dalla Costa e Sex, Race and Class (1975) di Selma James.
Contro l’ortodossia marxista che spiegava l’“oppressione” delle donne e la loro subordinazione agli uomini come un residuo dei rapporti feudali, Dalla Costa e James affermavano che lo sfruttamento del lavoro femminile ha giocato un ruolo centrale nel processo di accumulazione capitalistica, in quanto le donne sono state le produttrici del bene più essenziale per il capitalismo: la forza-lavoro. Dalla Costa sosteneva che il lavoro domestico non retribuito svolto dalle donne è stato la colonna portante su cui si è costruita la “servitù del salario” nonché il segreto della sua produttività (Dalla Costa 1972, p. 31). La differenza di potere tra donne e uomini nella società non poteva quindi essere attribuita né all’irrilevanza del lavoro domestico per l’accumulazione capitalistica – irrilevanza contraddetta dalle strette regole a cui la vita delle donne è stata soggetta – né alla sopravvivenza di atavici schemi culturali. Doveva invece essere letta come l’effetto di un sistema sociale di produzione che non riconosce la produzione e la riproduzione del lavoratore come un’attività socio-economica e perciò come fonte di accumulazione capitalistica, ma al contrario la mistifica come risorsa naturale o servizio personale, approfittando nel contempo della mancanza di retribuzione per il lavoro svolto. Facendo derivare lo sfruttamento delle donne nella società capitalistica dalla divisione sessuale del lavoro e dal lavoro domestico non retribuito, Dalla Costa e James hanno dimostrato che è possibile superare la dicotomia tra classe e patriarcato e hanno dato a quest’ultimo un significato storico specifico, aprendo così la strada a una reinterpretazione della storia del capitalismo e della lotta di classe da un punto di vista femminista. È in questa prospettiva che, alla metà degli anni ’70, con Leopoldina Fortunati ho iniziato a studiare quella che solo eufemisticamente possiamo definire la “transizione al capitalismo”, cominciando a ricostruire una storia che non ci era stata insegnata a scuola, ma che si è dimostrata decisiva per la nostra formazione teorica e politica. È una storia che non solo ci ha permesso una comprensione teorica della genesi del lavoro domestico nelle sue principali componenti strutturali – la separazione della produzione dalla riproduzione, l’uso specifico che il capitalismo ha fatto del salario per comandare il lavoro dei non salariati e la svalutazione della posizione sociale delle donne con l’avvento del capitalismo – ma che ci ha anche fornito la genealogia dei moderni concetti di femminilità e mascolinità, permettendoci così di invalidare l’assunto postmoderno di una predisposizione quasi ontologica da parte della “cultura occidentale” a imbrigliare il genere in schemi binari. Abbiamo infatti scoperto che le gerarchie sessuali sono sempre al servizio di un progetto di dominio che si autosostiene solo dividendo, su basi continuamente rinnovate, coloro che intende dominare.[3]Potrebbe essere in atto una trasformazione inversa, con una parziale uscita dal lavoro femminile, al di fuori dello spazio domestico e familiare? Sulla base del lavoro di Paola Tabet, questo processo di togliere dalla famiglia lavoro domestico, l’ attività sessuale, l’ attività procreativa e lavoro di cura emotiva e fisica è semplicemente un modo per inserire queste attività sul mercato.
– Dall’appropriazione individuale in famiglia e nel matrimonio, si passerebbe a forme piuttosto collettive di appropriazione delle donne nel mercato?
Va notato che sono soprattutto le donne razzializzate e proletarizzate che vendono alcune attività “coniugali” al di fuori della famiglia, e molte di loro continuano a svolgere contemporaneamente queste attività all’interno delle loro famiglie. Inoltre, c’è una parte del lavoro salariato delle donne – e anche il lavoro svolto da persone razzializzate – che sembra essere stipendiato e fa parte delle logiche di sfruttamento, ma che è più vicino alle logiche di appropriazione collettiva.
Ha a che fare con le relazioni dinamiche e contraddittorie tra appropriazione e sfruttamento, e tra appropriazione privata e collettiva. Lo sfruttamento, che ha a che fare con le relazioni di classe sociale, è noto, quindi non mi soffermerò su di esso. Questo è ciò che Guillaumin evidenzia sia per i rapporti sociali di razza che per quelli di sesso. Entrambi condividono, seppur con differenze, la logica dell’appropriazione collettiva e privata del corpo come macchina-forza-lavoro. Quindi, in genere, le persone che sono tenute a lavorare senza retribuzione sono persone razzializzate e persone sessualizzate, che possono essere usate alternativamente; specialmente quelle persone proletarizzate di questi gruppi, ma a volte anche le persone più privilegiate. Alle persone razzializzate di entrambi i sessi o alle persone sessualizzate di qualsiasi razza viene dato lavoro sporco e una paga scarsa. L’idea di vasi comunicanti si riferisce a quella labilità delle posizioni nella divisione sessuale e razziale del lavoro. Si riferisce anche al fatto che esiste un “terzo polo”: quella dello sfruttamento e dei rapporti di classe sociale. Le forme collettive di appropriazione del sesso e della razza sono vicine al salario, cioè alle logiche di sfruttamento. Sebbene si possa iniziare a dubitare che la proletarizzazione generalizzata, annunciata da Marx, avrà davvero luogo, molti di noi continuano a pensare che entrare nella forza lavoro salariata sia meglio che essere pienamente appropriati e non avere più accesso a uno stipendio.
Ma non c’è abbastanza lavoro salariato o la volontà di sostenere tutto il lavoro “sporco” di riproduzione sociale. Quindi c’è una lotta tra persone razzializzate e persone sessualizzate per entrare nell’ambito mercato del lavoro salariato. Allo stesso tempo, c’è un’altra lotta individuale e collettiva per non essere la persona su cui cade il lavoro sporco e non pagato. C’è una trasformazione neoliberale del mercato del lavoro, con flessibilità, precarietà e internazionalizzazione. Nello stesso tempo c’è una dinamica di creazione di una forza lavoro libera, soprattutto attraverso l’espulsione dell’ambiente rurale, attraverso la privatizzazione della terra, la guerre, i disastri ecologici, ecc. (che “liberano” popolazioni spesso razzializzate) e dall’allentamento dei rapporti coniugali, dall’impoverimento dei mariti, dalla migrazione, dai cambiamenti nelle leggi e dalla “morale” (che “libera” le donne). Cosa succede a queste persone, a tutto questo “pluslavoro” che si crea? Contribuiscono alla trasformazione-degrado del mercato del lavoro: a una generale precarietà di questo mercato e alla comparsa di settori occupazionali poco definiti, dove le persone non esercitano esattamente quella che viene spesso chiamata una “professione”, ma guadagnano denaro, e talvolta anche abbastanza bene. Questi sono “lavori” che lasciano soldi in mano ma non sono lavori salariati, sono attività abbastanza prive di protezione. Inoltre, si presume che non richiedano “qualifiche” ma solo qualità “naturali” (associate a razza e / o sesso). E così, secondo il sesso del popolo proletarizzato, ci sono due grandi opzioni. Per gli uomini, entrare nel “lavoro delle armi”, che copre un vasto spettro (diventare militari, lavorare nella polizia, diventare trafficanti di droga, diventare terroristi, guerriglieri, sicari o trafficanti di uomini, guardie carcerarie, etc.). E per le donne, tutto ciò che include il presunto “lavoro sessuale”, le pulizie e il servizio domestico restano comprese nelle “attività di cura”, oltre a cercare di guadagnare dei soldi producendo bambini (la GpA). Gli “uomini in armi” e le “donne di servizio” si sviluppano dialetticamente, poiché l’azione degli uomini in armi contribuisce a “liberare” più lavoro femminile, desolando le campagne, distruggendo il mercato del lavoro tradizionale, dislocare le famiglie e creando masse di vedove e rifugiati. E questo è molto importante: la distruzione economica e materiale causata dagli uomini armati alimenta questo mercato del lavoro neoliberista.
L’uscita dall’appropriazione non può essere individuale o meramente ideologica, deve toccare le basi materiali dell’organizzazione del lavoro. Il lesbismo, se significa solo andare a letto con donne, non permette di uscire dall’ impasse, ma è solo una pratica sessuale individualista. Per uscire dall’appropriazione bisogna attaccare l’appropriazione collettiva delle donne e mettere in discussione anche l’appropriazione della razza (e per lo stesso dei vasi comunicanti, anche lo sfruttamento di classe). Implica una lotta frontale contro l’ideologia e contro le pratiche, contro le basi materiali dell’appropriazione e dello sfruttamento.
– La comunità o il femminismo di Abya Yala: un’ alternativa per uscire da queste relazioni di appropriazione.
Si tratta di una proposta con elementi di grande importanza. La cosa più interessante nel femminismo comunitario è il legame che pone tra l’appropriazione delle donne e l’appropriazione delle risorse naturali, della “Terra” nel senso di Pacha Mama. Ci parla dell’accaparramento storico, dalla prima fase della colonizzazione all’attuale ricolonizzazione estrattiva, di ciò che l’economia capitalista tratta come “esternalità”, risorse “naturali” che possono essere incorporate nel plusvalore senza ulteriori indugi: il lavoro delle donne e la “Natura”, cioè le materie prime. Il femminismo comunitario completa la riflessione della Federici, che descrive l’oro di Potosí non come unica fonte di accumulazione primitiva, giacché il lavoro domestico delle contadine europee, del Medioevo, progressivamente rinchiuse in famiglia dalla violenza della caccia alle streghe determinarono la più grande forma di accumulazione primitiva. Il femminismo comunitario, a sua volta, enfatizza l’appropriazione delle donne indigene e afro, come un’altra fonte essenziale di accumulazione primitiva.
Così, globalmente, il femminismo decoloniale, indigeno e afro, il femminismo marxista ortodosso e il femminismo-lesbismo materialista convergono in riflessioni e lotte collettive contro le diverse forme di appropriazione e accumulazione primitiva, passata e presente.
NOTE E RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
[1] Colette Guillaumin, Sesso e razza: formazioni immaginarie materialmente, efficaci, Dialogo su Colette Guillaumin con Sara Garbagnoli, Vincenza Perilli e Valeria Ribeiro Corossacz, Pubblicato su Manastabal il 25 settembre 2020, Su internet: https://www.academia.edu/44208110/Colette_Guillaumin_Sesso_e_razza_formazioni_immaginarie_materialmente_efficaci, consultato il 14/12/2020.
[2] S&F, n. 23, del 2020, pp. 8-9, su internet: http://www.scienzaefilosofia.com/wp-content/uploads/2020/07/SF_23.pdf, consultato il 14/12/2020.
[3] Silvia Federici, Calibano e la Strega. La donna, il corpo e l’ accumulazione originaria, Mimesis edizioni, Milano-Udine, 2015, pp. 11-12.