Fonte: L_Antonio
Url fonte: https://lantonio2017.wordpress.com/2017/07/04/lavoro-e-la-parola-piu-evocativa-intervista-a-pier-luigi-bersani/
a cura di Alfredo Morganti e Giorgio Piccarreta – 4 luglio 2017
Prosegue con Pier Luigi Bersani, la serie delle interviste che L_Antonio sta dedicando alla sinistra italiana. Reduce da ‘Insieme’, l’iniziativa organizzata in piazza SS. Apostoli da ‘Articolo 1’ e ‘Campo Progressista’, Bersani conferma la necessità di andare oltre le ‘geometrie politiciste’ e ripartire da idee, proposte, suggestioni e parole-chiave, prima tra tutte il ‘lavoro’.
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“Lasciare il PD fu una sofferenza grande. Facemmo una battaglia dura contro il Jobs Act. Una parte importante della cultura di sinistra è franata verso l’idea di modernizzazione rampante e vincente. L’Italia ha bisogno di una sinistra di governo. Il problema è dire con nettezza quello che vuoi fare, poi va scelta “la parola”. La più evocativa resta “lavoro”. Il futuro desiderabile è un percorso federativo che unisca senza annullare verso un soggetto politico nuovo”.
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On.le Bersani, quanto le è costato, anche in termini affettivi, lasciare la ‘Ditta’ e uscire dal partito di cui era stato fondatore e segretario?
Si può ben immaginarlo: una sofferenza grande, ma io avevo e ho un patto di lealtà più profondo e dirimente con le mie convinzioni politiche e ideali
Perché non è accaduto prima, con il jobs act, per esempio, ossia su temi e contenuti forti della sinistra, come quello del lavoro, appunto?
Si dimentica spesso che io e altri facemmo sul jobs act una battaglia aperta e dura in direzione del PD votando contro e finendo in minoranza. Se pur non su tutti gli articoli, alla Camera mantenemmo un patto di lealtà. Allora si tentava ancora di tenere assieme un partito. Fu un errore? Ai posteri l’ardua sentenza.
Lei è d’accordo con l’affermazione di Massimo D’Alema per cui “nel nostro Paese la sinistra non è “autosufficiente”? Che cosa significa, a suo giudizio? L’Ulivo è ancora una risposta attuale a questa non autosufficienza?
Quel concetto io lo svolgo così: l’Italia ha bisogno di una sinistra di governo e una sinistra di governo in Italia, per ragioni politiche e storiche, può solo esprimersi nella forma di un centrosinistra largo e plurale.
Questa parola, ‘centrosinistra’, è ancora la chiave per aprire la porta del governo, oppure sarebbe meglio indicare un altro termine, più attuale, più adeguato a denotare l’alleanza possibile tra la sinistra e altre forze progressiste o di centro democratico? Anche perché nel sistema proporzionale si vota per identità politiche e organizzative, non per generiche ‘coalizioni’, e solo successivamente al voto si sviluppa il gioco e l’intreccio delle possibili alleanze parlamentari.
Parole sante. Il politicismo delle geometrie non dice più nulla agli italiani. Il problema è dire con nettezza quello che vuoi fare, su questo va scelta “la parola”. La più evocativa per me resta “lavoro”. Ma tanti, sbagliando, la ritengono retro.
Il renzismo ha il fiato corto. Forse per questo Renzi ha sempre avuto fretta, temeva i tempi lunghi, quelli del serio e lungimirante giudizio politico. È sempre stato un centometrista piuttosto che un maratoneta. Le chiediamo: Renzi è roba nostra, è il figlio ultimo e ingrato della strada sbagliata presa dalla sinistra negli anni passati (terza via, fascino cosmopolita e globalistico, illusioni ‘tecniche’, berlusconismo di sinistra)? Oppure è solo un episodio, un incidente di percorso? E quanto ce lo abbiamo sulla coscienza, quanto avremmo potuto evitare la sua scalata al partito e a Palazzo Chigi?
Mi si rimprovera spesso di avergli consentito uno spazio di affermazione. È una sciocchezza. Sono sempre stato convinto che se non avessi consentito di farlo partecipare, avrebbe rotto il PD. In quel frangente fu possibile batterlo, sarebbe ancora stato possibile se a un certo punto non fosse franata, al di là delle aspettative, l’anima stesa di una parte importante della cultura e della tradizione di sinistra verso l’idea di una modernizzazione rampante e vincente e sospinta da poteri non irrilevanti di cui Renzi è stato per una fase l’interprete.
Pier Luigi Bersani è un dirigente politico che trasuda umanità e tra tutti è quello che ha un animo più popolare. Come si trova a contatto con le élite, con le classi dirigenti, con il mondo dei tecnici, dei tecnocrati, degli specialisti? Quanto la sinistra si è allontanata dal mondo che le appartiene (gli umili, gli ultimi, il ‘popolo’, i lavoratori, la gente semplice) per avventurarsi in un mondo che le ha proposto uno stile, un linguaggio, una visione generale spuria e distante dalla sua tradizione e dalla sua identità?
All’inizio, quando ero molto giovane, parlavo da saputello… Poi ho sentito l’esigenza morale di essere del tutto dentro a una cultura e a un linguaggio popolare per portarli con orgoglio e dignità nei luoghi delle élite. Naturalmente questo significa cercare anche di conoscere il linguaggio delle élite. Il gusto più grosso è quando capita di incontrare gente che si aspetta un “contadino” e si trova davanti un “teologo”…
Qual è il futuro di Articolo 1? Sciogliersi in un partito più grande oppure crescere come partito? Aprire una fase di confronto e mediazione tra gli altri raggruppamenti della sinistra, oppure intraprendere una propria strada organizzativa? Cosa serve di più oggi, ingigantire la propria identità, sino a far crescere attorno una specie di recinto, oppure avviare una osmosi che preluda a forme organizzative più ampie e più aperte?
Il futuro desiderabile è quello di sostenere un percorso federativo che unisca senza annullare, potendo per questa via traguardare a un soggetto politico nuovo.
Cosa legge Bersani? Cosa ascolta? Oggi pare che i dirigenti politici non leggano più nulla, non ascoltino nulla, al massimo si fanno riassumere i libri dai propri collaboratori, oppure li esibiscono sui social mentre li comprano, senza alcuna garanzia che li leggano davvero. Bersani, ne siamo certi, è in controtendenza.
Certamente leggo, anche se ovviamente molto meno di quanto vorrei. Le mie letture prevalenti si riferiscono alla storia. Gramsci diceva che la storia è maestra ma non ha scolari: questo è proprio vero, ed è davvero un guaio. La storia infatti non si ripete, ma ama le rime. Questo mio interesse mi ha portato anche a una “deformazione professionale”, e a un limite. Se uno mai si prendesse la briga di osservare quel che ho detto o quel che ho fatto nella vita, si accorgerebbe che le ho spesso azzeccate nel tempo medio e lungo, e le ho spesso sbagliate nel breve. Come uno che finisce per essere più bravo in storia che in cronaca.
Domandone finale. Ma la Juventus, ce la farà prima o poi a vincere un’altra Champions, oppure in Europa non è mai l’anno della Juve? (Perdoni, se può, il nostro romanismo.)
Da juventino temo che sia difficile prescindere dalla classifica dei club più danarosi. Quindi credo che avremo una Juve nel gruppo di testa, ma difficilmente in testa.
(a cura di Alfredo Morganti e Giorgio Piccarreta)


