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di Adriano Prosperi 24 aprile 2015
Caro Paolo,
ti ringrazio per l’invito a riflettere e a rispondere al tuo questionario. Mi ha frenato il senso di appartenere a un mondo scomparso e di avere difficili rapporti col presente dell’Italia di oggi. Ma, poiché sono da una vita lettore e studioso di cose storiche e so che i documenti e le testimonianze servono come mattoni da costruzione per la conoscenza, questa volta vorrei rendere una testimonianza personale, il racconto della “mia” Liberazione.
Sono fra i testimoni anziani di quel fatto e penso che tocchi ormai alla mia generazione raccontare le cose che ha visto perché chi è più giovane, se vuole, ne tenga conto. Il compito di testimoniare, col girare della ruota del tempo, arriva oggi alla generazione di chi, come lo scrivente, nacque insieme allo scoppio della seconda guerra mondiale e si trovò a vivere i suoi primi anni nel cuore di un’Italia contadina e clericofascista, respirando nell’aria la violenza dell’ingiustizia e della sopraffazione sociale ma anche quella di fortissime passioni e speranze politiche, nell’infuriare della guerra e dell’occupazione straniera, con le stragi nazifasciste come condizione normale dell’esistenza, in una società poverissima e in un paese ancora una volta, come secoli prima, battuto e saccheggiato da un esercito occupante straniero con i suoi servi italiani (spie e miliziani fascisti), dove nessuno era sicuro della vita sua e della sua casa.
Forse può essere utile ricordare l’inferno da cui uscimmo con la Liberazione, oggi che in molti paesi del mondo masse di bambini e di adolescenti imparano ancora a combattere e a sparare come una condizione normale dell’esistenza. E anche per noi le armi furono i primi giocattoli, gli oggetti misteriosi e potenti che desiderammo e qualche volta riuscimmo a possedere. Così come fu allora normale accompagnare col desiderio e la paura i passaggi delle formazioni di bombardieri dell’esercito alleato: lo spostamento d’aria di una bomba d’aereo che uccise alcuni vicini e due miei coetanei in un casolare vicino fu una delle esperienze rimaste da allora iscritte nella mia memoria, soprattutto quella involontaria.
Quell’Italia è scomparsa, le macerie sono state cancellate, alle tracce della miseria si è sovrapposto un mondo traboccante di offerte e promesse di consumi. Se può essere utile a qualcuno ricordarlo è perché si tenga presente che è lo spazio breve di una sola esistenza, sia pure ormai piuttosto avanzata, che si stende tra l’oggi e l’allora, richiamando nella sua brevità alla mutevolezza delle cose del mondo e alla necessità di vigilare contro ogni minaccia di rivalutazione di quello che fu allora il sistema dominante.
Gli anni di una lunga esistenza hanno lasciato intatto il senso dell’uscita dal tunnel, la scoperta per la prima volta del significato di essere e sentirsi liberi. Al mio paese natio la festa nazionale della Liberazione è quella generale che celebra il 25 aprile 1945, ma ha anche un’altra data perché tra i campi di quella collina toscana la libertà arrivò assai prima: e ricordarlo serve a far presente quanto lunga e sanguinosa sia stata la lenta risalita della penisola da parte delle truppe alleate e quanto alto il prezzo pagato luogo per luogo.
La mia liberazione avvenne il 2 settembre del 1944. L’Italia è lunga da risalire. L’esercito alleato, a lungo attestato sul confine della riva sinistra dell’Arno, quel giorno lo superò e arrivò nel nostro paese. Erano attesi da giorni. La notte prima nessuno dei molti abitanti della collina aveva dormito tranquillo. Si trattava di circa due decine di sfollati dalle città vicine, di diversa cultura e condizione sociale, uniti a quel pugno di contadini che ci risiedevano da sempre, condividendo tutto con loro e maturando relazioni anche intense e durevoli di solidarietà umana e politica. Il piccolo nucleo della mia famiglia – una madre, una nonna – dormì non sui letti consueti ma su un giaciglio di coperte stese per terra in cantina, a due passi dal rifugio scavato dietro la casa, dove mio padre faceva la guardia, con le armi a portata di mano.
Si temevano i colpi di coda di sbandati tedeschi, franchi tiratori, fascisti in fuga. Il grosso degli occupanti si era ritirato ma prima, il 23 agosto, aveva lasciato un ultimo segnale di sangue chiudendo in una morsa di ferro la vicina area di boschi, acque e terre emerse del Padule di Fucecchio dove si nascondevano sfollati e contadini: qui, nelle paludi e tra gli alberi, avevano rastrellato e ucciso 178 persone. Dopo un giorno segnato dallo sgranarsi delle mitragliatrici e delle pistole, mentre se ne levava il fumo tra le nebbie di una pesante calura estiva, la sera si erano avute, affannose e terrificanti, le notizie della strage e si erano conosciuti molti nomi dei morti – tanti amici, parenti, conoscenti. Erano circolate descrizioni di donne violentate e sventrate, di neonati usati come bersagli di tiro a segno.
Questo, del resto, era da tempo il colore di quelle giornate: si moriva così, per caso. La vita era precaria. Esseri in bilico ogni giorno tra la vita e la morte erano quelli umani così come quelli dei compagni di vita e fatiche dei campi, gli animali delle stalle: si era imprigionati e sequestrati e deportati, si moriva, si spariva. I carabinieri italiani arrestavano per ordine dei fascisti e dei tedeschi, anche se si raccontavano episodi di aiuti e solidarietà segreti con gli antifascisti. Poco tempo prima della liberazione, c’era stata l’irruzione sull’aia di una banda di SS ubriache: avevano sequestrato e portato via un gruppo di uomini tra di loro mio padre, che era corso con pistole in pugno per difendere la famiglia ma aveva fatto appena in tempo a nascondere le armi quando aveva visto il numero e le armi dei nemici. Si era poi insperatamente salvato, era tornato vivo dopo una notte trascorsa nel buio e nel terrore a scavarsi la fossa, e dopo una mattina di ricerche affannose, di appelli al comando tedesco. Quando non ci si sperava più, l’intervento di un maresciallo polacco della Wehrmacht aveva bloccato l’esecuzione capitale o la deportazione, appena in tempo. Altri non ebbero la stessa fortuna: si raccontava a bassa voce la storia della loro scomparsa, la deportazione, l’uccisione.
Intanto si moltiplicavano gli sfollati – venivano soprattutto da Livorno, quotidianamente bombardata, e da Pistoia. Un giorno vennero dei giovani del paese, diventati partigiani e discesi dal vicino Appennino pistoiese per chiedere cibo e aiuto. In cerca di animali del cortile e della stalla venivano quotidianamente soldati tedeschi. E c’erano requisizioni di uomini, per la Todt. Arrivavano voci sull’avanzata degli alleati, nell’aria passavano squadriglie di aerei dell’aviazione alleata. Gettavano volantini, rotoli di filamenti luccicanti, qualche volta bombe. Li guardavamo con speranza e paura. E così giunse il 2 settembre, le voci dell’avanzata alleata si moltiplicarono. Il rombo dei carri armati li annunciò. Mio padre con altri uomini andò incontro a loro. Noi – donne, vecchi e bambini, famiglie di sfollati in cima alla collina tra i campi – guardavamo da lontano. Ecco che da una collina vicina una mitragliatrice tedesca cominciò a sgranare colpi verso gli alleati. Tutti corremmo d’istinto nel rifugio scavato dietro la casa. Appena in tempo: gli alleati avevano piazzato un cannone in cima all’abitato vicino e spararono cinque colpi. Ma sbagliarono l’obbiettivo: colpirono proprio la nostra casa. Mio padre lo vide, lo seppe, corse disperato: e ci trovò vivi nel rifugio.
Intanto si era fatta sera. La casa era per metà in piedi, la parte bassa era intatta. Nella stalla c’era una mucca: i tedeschi non l’avevano requisita perché aveva la pancia gonfia, stava per partorire e questo li aveva schifati. Così, la prima cosa da fare fu preparare il foraggio per la mucca, tagliarlo con la falce. Lo facemmo tutti insieme. Un gesto abituale, come quello del giorno prima . Ma nello spazio di quelle ore tutto era cambiato. Era la prima sera di pace. Indimenticabile. Eravamo non solo vivi ma liberi. Lo si imparò a poco a poco, facendo cose semplici. Bisognava riparare la casa bombardata, alla meglio, coprire il tetto, gettar via i pochi arredi fusi dalle bombe, riorganizzarci negli spazi abitabili. Ma non è facile descrivere la forza del sentimento che rimase scolpito per sempre dentro di noi: era finita la paura, era cominciata la pace nel segno di un grande mutamento collettivo. Di regole, di persone.
I fascisti del paese se n’erano andati, i manganellatori, le spie, i repubblichini, i pochi proprietari delle fattorie, tutti fascisti, avevano seguito i tedeschi verso il Nord. Qualcuno tornò dopo le elezioni politiche del ’48, il giorno vissuto nell’accensione e nel naufragio dell’attesa vittoria delle sinistre. Era cominciata intanto la scuola, in un edificio pieno di simboli fascisti e con una maestra già moglie di un manganellatore. Ma il mondo si era allargato a dismisura, era finita l’angoscia che serrava il cuore dentro quelle case indifese dove la morte entrava all’improvviso con la voce di un esercito occupante, con quella delle spie fasciste, dei profittatori, dei padroni. Scoppiò una grande passione politica, un’attesa di cambiamenti grandi e definitivi. Era la libertà – la grande, immensa sensazione che era finita la paura, che potevamo camminare, respirare, parlare da esseri liberi. Chi ha provato quella sensazione non la dimenticherà mai. Era quella, la Liberazione. E fu festeggiata con la partenza verso il Nord di tanti vicini e amici più grandi col Corpo volontari della Libertà, per quella che doveva essere la battaglia per la liberazione di Bologna.
Per concludere: si dice, si deve dire, Repubblica italiana, nata dalla Resistenza antifascista. Questo è il mio parere. La festa della Liberazione è il giorno della Repubblica italiana, il vero compleanno del nostro paese. Si tratta di riconoscerlo o di dichiararsi fuori dal patto costituzionale e dai valori che vi furono sanciti. C’è un dato storico e morale indiscutibile che tutti sanno o dovrebbero imparare a conoscere: l’Italia, quella in cui viviamo, nacque dal rifiuto dell’altra Italia, quella clericofascista alleata del nazismo, macchiata per sempre dall’infamia delle leggi razziali e dell’antisemitismo, morta nei violenti sussulti di agonia di una guerra mondiale scatenata al seguito del nazismo e nel sangue delle stragi nazifasciste di una guerra civile. Non ci può essere dialogo con chi tenta di cancellare questo atto di nascita della nazione. Ora, è un fatto che quel nemico esiste e finché esiste nemmeno i morti sono al sicuro: perché è su di loro, sulle ragioni della loro vita e delle loro lotte, che si vuole stendere il velo dell’ignoranza.
Da quanti anni dura questa campagna anti-antifascista che ha nella festa della Liberazione il suo ossessivo bersaglio? È stata di volta in volta aggressiva o caramellosa, dura o dolcemente suadente. Ha diffamato e infangato i combattenti partigiani, ha chiesto una postuma uguaglianza di vittime e carnefici, si è vestita dei panni della modernizzazione, dell’abbandono dei vecchi miti, in nome di un paese che doveva “andare avanti”, “procedere oltre”, “superare” i vecchi miti, liberarsi dal pesante bagaglio della storia; ha scomodato tutti i luoghi comuni di una sociologia e di una storia dell'”identità” italiana come fenomeno di durata millenaria, fatto di folklore e di religione. L’ultima versione fu quella di rendere il capovolgimento della storia semplice come bere un bicchiere d’acqua. Bastava un’inezia, una mezza parola: si trattava di sostituire “Festa della Liberazione” con “Festa della Libertà”. La sostennero autorevoli editorialisti di giornali “moderati”, alla vigilia del 25 aprile 2009. Parola pericolosa e divisiva la prima, dissero; invece la seconda univa tutti perché cancellava l’azione del liberarsi nell’indistinto di “libertà”, una di quelle parole, come ha scritto Marc Bloch, “che ogni epoca rimaneggia a suo piacere”. La proposta di “andare oltre” è in realtà una proposta di tornare indietro, di fare come se la storia che abbiamo vissuto non ci fosse stata. Chi la sostiene vuole fare degli italiani un popolo decerebrato, senza memoria e senza linguaggio. Propone una unificazione nel segno non di una memoria condivisa ma di una condivisa, generalizzata finzione. Si tratta solo di fare finta che non ci sia stata in Italia una guerra combattuta sul nostro suolo, tra le nostre case per colpa delle scelte di un regime sul quale gravava la vergogna indimenticabile delle leggi razziali.
Si dice, si deve dire: Repubblica italiana, nata dalla Resistenza antifascista. Necessario ripeterlo, con tutta chiarezza. L’atto di nascita di una realtà politica è quello, storico, in cui si prende coscienza del fatto che sono venuti meno i fondamenti antichi di quello che Renan definì il plebiscito di ogni giorno, il senso di appartenenza alla nazione. L’atto di nascita di una realtà politica è quello, storico, in cui si sciolgono i vincoli antichi per fissare le nuove regole del patto costituente. Quello che la Resistenza e la Liberazione hanno saldato è un patto tra generazioni guadagnato da una parte in lotta per tutti i cittadini, una realtà che è stata più volte baluginante come una luce incerta, un desiderio, una mancanza nella lunghissima tradizione culturale italiana: tutti sanno quante volte si è affacciato il senso della sua mancanza, costitutivo con Dante dell’atto di nascita della lingua e dell’idea di Italia, e poi il ricordo della grandezza romana, l’appello a virtù civili e militari antiche – da Petrarca a Leopardi passando per Machiavelli. Ma c’è stata una sola occasione in cui il rifiuto dell’assetto precedente e la volontà di fondarne uno nuovo ha trovato fondamento nella realtà di una lunga sofferenza e una guerra di popolo per la propria sopravvivenza e per la propria libertà.
La guerra civile è stata una ribellione morale prima ancora che politica e sociale, la scelta di combattere “pro aris et focis”, per eliminare la guerra dalle case e dalle città e per fondare un nuovo ordine di giustizia sociale. È stato fra il 1943 e il 1945 che il popolo italiano ha sperimentato le condizioni di intollerabilità dell’ordine fascista-monarchico. È stato allora, non prima e non dopo, che si è reso necessario sciogliere con le armi i vincoli antichi, dichiararli non più esistenti perché l’Italia potesse assumere tra gli altri Stati del mondo il posto, distinto ed eguale, che le spettava.