Fonte: La stampa
Tre giorni dopo il suo insediamento alla Casa Bianca, Donald Trump mandò all’Europa due messaggi. Parlando a Davos il 23 gennaio, ingiunse ai membri europei della Nato di aumentare le spese militari “come avrebbero dovuto fare anni fa”, indicando il traguardo del 5% del Pil. Negli stessi giorni riprese un tema-chiave della sua campagna elettorale, promettendo la pace in Ucraina mediante trattative dirette con Putin.
Nella brutale pedagogia del presidente americano, questi due punti sono complementari, ma hanno trovato in Europa un’accoglienza opposta: NO al dialogo con Putin in vista della pace, SI’al riarmo, se pure a quote meno iperboliche. Incoraggiato dall’Unione con una clausola di salvaguardia che libera le spese militari dai vincoli del Patto di stabilità, il riarmo corale dei Paesi europei è ormai dato per scontato. Anzi, con una capriola logica prima che politica, si presenta non per quello che è (la fedele osservanza al diktat di Davos), ma come una reazione al dialogo Trump-Putin, in nome della continuità negli aiuti alla Kiev di Zelenski, che alcuni Paesi, anzi, dicono di voler di soccorrere con l’invio di truppe.
Di che cosa è segno quest’evoluzione nel Vecchio Continente? E in che direzione ci porta? Verso l’America di Trump o contro di essa? Verso la guerra o verso la pace in Europa? Pur con la sua aria ondivaga e capricciosa, la linea politica del presidente americano sembra ispirata al vecchio precetto Si vis pacem, para bellum, “se vuoi la pace, preparati alla guerra”: trattative diplomatiche da un lato (anche con Putin), riarmo dall’altro. A quel che pare l’Europa condivide questa linea: solo che la pace di Trump (accordo immediato con Putin) è l’opposto di quella voluta da von der Leyen, Starmer, Macron e così via (sostegno a ogni costo a Zelenski).
Il terreno su cui si svolgono queste manovre politiche è della più grande instabilità. L’inatteso trionfo elettorale di Trump costringe tutti a un graduale aggiustamento dei linguaggi e degli obiettivi, che col nuovo presidente devono comunque fare i conti. E se l’invasione russa dell’Ucraina nel 2022 aveva reso ostile a Putin anche chi fino alla settimana prima era in fitto dialogo con lui, ora l’apertura di Trump a Mosca costringe cancellerie e opinionisti alle acrobazie della doppia verità: immarcescibile sostegno all’Ucraina da un lato, dall’altro qualche cauto spiraglio (in crescita) verso l’intesa col bieco nemico di ieri.
In questo scenario di troppe astuzie verbali, l’Unione Europea brilla per incoerenza. I 27 Stati membri hanno poco meno di 27 posizioni diverse, al punto che l’ipotesi di una linea comune può partire, paradossalmente, da uno Starmer che non rinnega lo strappo Brexit ma al tempo stesso si sente europeo e però anche legato agli Usa dalla storica special relationship anglosassone. Intanto von der Leyen ostenta una sicurezza che non ha, giostrando uno slalom acrobatico fra istituzioni comunitarie e governi nazionali. A livello europeo come a quelli nazionali (per esempio in Italia) le radicali discordie anche all’interno dei singoli schieramenti politici generano intanto il frutto marcio di una retorica bellicistica che credevamo sepolta da generazioni. Ma due guerre mondiali non sono bastate all’Europa: ed ecco che si torna a parlare di “pace che intorpidisce” (Galimberti), di necessario “spirito combattivo” (Scurati), di un’Europa che “non può più avere una mentalità di pace” (Cavo Dragone), e anzi deve “usare il linguaggio della forza”. È a loro che risponde, con risplendente coerenza morale, papa Francesco: “Le parole non sono mai soltanto parole, sono fatti che costruiscono gli ambienti umani. Dobbiamo disarmare le parole, per disarmare le menti” (18 marzo).
Il confuso vocío sul riarmo cavalca un equivoco dopo l’altro, e dall’oceano di parole che inonda l’Europa emerge un senso di impotenza sostanziale. Chi deve riarmarsi, i singoli Paesi o l’Unione Europea (con o senza il Regno Unito? ), o la Nato? Solo la prima e l’ultima alternativa sono immediatamente praticabili: ma un riarmo Nato presuppone la sintonia col Grande Fratello Usa (e dunque oggi non può giustificarsi in funzione anti-Putin), mentre la deterrenza dei singoli Paesi non è in grado di determinare gli scenari mondiali. Ultima spiaggia per giustificare gli armamenti, l’ipotesi (indimostrabile) che Putin intenda invadere l’Europa fino al Portogallo; ma nessuno prende sul serio Trump quando davvero minaccia di annettere Groenlandia e Canada. Intanto, l’Osservatorio Conti Pubblici della Cattolica diretto da Carlo Cottarelli ha dimostrato che la spesa militare europea è già superiore del 58% a quella russa, e che la crescita degli armamenti dei singoli Paesi senza avere un esercito unico dell’Unione (di là da venire) è del tutto vana.
Due domande si fanno sempre più necessarie. Primo: per che cosa o per chi dovrebbe combattere l’Europa? L’idea di Europa unita, nata dalle macerie della guerra, ha il suo cuore nella convivenza pacifica, nella prosperità in nome di ideali come l’eguaglianza, la libertà, la solidarietà sociale, la cultura diffusa, la costruzione del futuro nella fedeltà alla storia. Ma l’Europa che abbiamo costruito ha messo tutto al margine, ponendo al centro il potere economico privato che divora il pubblico bene e i diritti sociali, a cominciare dalla salute, dall’istruzione, dalla lotta alle disuguaglianze. La congenita debolezza dell’Europa ha una sola radice: la rinuncia a costruire la propria identità intorno a un forte nucleo ideale.
Seconda domanda: in mancanza di un’idea condivisa di Europa, a chi giova la corsa al riarmo? Cui prodest? C’è un’unica risposta: giova a chi fabbrica armi sempre più sofisticate e le vende a prezzi sempre più alti. Ditte americane ed europee (anche italiane), che con la sola prospettiva del riarmo accumulano profitti stellari. E se scoppiasse la pace, dove andranno queste armi? Non meno di 56 (cinquantasei) conflitti armati sono oggi in corso, spesso con più o meno occulta presenza europea: la sovrabbondanza di armi non finirà con l’alimentare questo scenario di guerre locali? E il crescente potere della lobby mondiale delle armi non genererà uno stato permanente di quasi-guerra, un continuo trasferimento della capacità di spesa pubblica dalla sanità, dall’istruzione, dalla cura dell’ambiente all’acquisto di armi distruttive?
Se da qualcosa si deve ricominciare, non è dalle armi ma dalla cultura, dalla ricerca, dalla scienza, terreno di dialogo fra gli Stati. Pochi ricordano che proprio in questi anni di tensione fra Russia e “Occidente” l’International Space Station continua a ruotare a 400 km di altezza intorno alla Terra con equipaggio misto Usa-Russia-Giappone-Europa-Canada. Il video Nasa del 16 marzo scorso dove astronauti americani e russi si danno il cambio sull’IIS abbracciandosi vale mille dichiarazioni di politici, diplomatici, opinionisti. È dal dialogo con obiettivi comuni (come la scienza) che può ripartire un futuro di pace.
All’opposto, la guerra. Un grande regista giapponese, Shin’ya Tsukamoto, ha presentato a Venezia nel 2023 un film, Ombra di fuoco, ambientato in un’Hiroshima all’indomani della Bomba. Protagonista, un bambino fra i detriti di un mondo devastato. “Dato che il mondo si sta allontanando dalla pace”, ha scritto il regista, “mi sono sentito in dovere di girare questo film, come se fosse una preghiera”.