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di Franco Cardini, 16 ottobre 2016
Mi spiace che Dario Fo se ne sia andato, il 13 scorso. Era un vecchio compagno della mia esistenza. Avevo imparato ad apprezzarlo alla radio, nei primi Anni Cinquanta, quando partecipava alle trasmissioni dello staff italiano al seguito del Tour de France e mi faceva indignare perché era un fan di Fausto Coppi (e invece io, da buon fiorentino, bartaliano sfegatato). Qualche anno più tardi lo invidiai da ammattire: si era messo con Franca Rame (chi non la ricorda da soubrette si è perso una bella fetta di memoria: altro che alzheimer!…). L’ho ammirato più tardi come attore, come giullare, come giocoliere linguistico: il suo gramelot era geniale. Conservo invece qualche dubbio su di lui come scrittore e divulgatore storico (sant’Ambrogio, Lucrezia Borgia) e minor consenso posso accordargli come esegeta, specie a proposito di Francesco d’Assisi ch’egli riduce a un agitatore classista.
Debbo dire comunque che non mi sono piaciute le polemiche rovesciategli addosso: gli hanno dato il Nobel, e molti si sono scandalizzati: ma che sarà mai? Tale pur ambìto riconoscimento è in fondo pur sempre concesso da un sodalizio abbastanza decentrato in tutti i sensi possibili che solo l’uso continuo e iperbolico dei media ha elevato a massimo premio mondiale, garanzia di eterna gloria. Il Nobel non stabilisce affatto garanzie di eccellenza universale: lo hanno dato a Salvatore Quasimodo ma non a Ezra Pound, uno dei più grandi poeti di tutti i tempi.
Non ho gradito le spiacevoli e reiterate contumelie post mortem per l’adolescenziale militanza di Fo nella RSI: come se fosse stato l’unico ad arruolarsi, e non importa poi troppo se per giovanile infatuazione fascista o per evitare le conseguenze del “bando Graziani”; e non venite per piacere a blaterarmi di “obiettiva complicità di tutti i repubblichini nella shoah”, perché anche al ridicolo dovrebb’esser posto un limite. Non ho per nulla condiviso le recriminazioni a proposito dell’ “appoggio” che egli e la moglie dettero agli assassini della famiglia Mattei il 16 aprile 1973 a Primavalle. A pochi giorni da quell’infame e luttuoso evento ricevetti una lettera anonima nel quale mi si annunziava che avrei “fatto la fine dello spazzino fascista”: denunziai la cosa ai carabinieri, che mi consigliarono – ero professore universitario e padre di tre bambine piccole – “di non uscire di casa per qualche giorno”. Ma ricordo bene che Fo e la Rame non fecero affatto l’apologia dei criminali: si limitarono a sostenere che non erano stati loro, il che è molto diverso. Per il resto, era un geniale uomo di spettacolo: la sua uscita di scena fa calare il sipario su un’epoca che in buona parte è stata anche la mia. Permettetemi di pensare a lui con un minimo di pietas.
Dove poi si è passato il segno quanto a provincialismo, a ignoranza, a cattivo gusto, ad assenza di qualunque tipo di cultura e di sensibilità, è stato nelle polemiche contro il Nobel assegnato a Bob Dilan. Siamo davanti a un vero, grande interprete del nostro tempo con tutte le sue miserie, le sue passioni, le sue illusioni. La sua musica è stata grandiosa, i testi di molte delle sue canzoni dei veri e propri capolavori di poesia. Gli scrittorucoli miracolati dai media e incensati da una critica pennivendola e mafiosa che si sono indignati affermando che la musica non ha nulla a che fare con la letteratura hanno offeso tutta un’altissima tradizione che da Omero attraverso la lirica arabo-persiana e i trovatori provenzali giunge fin a Lorca, a Brel, a de André, a Bowie e a Guccini. Ma di che cosa state blaterando, banda di livorosi analfabeti?