Tarcisio Burgnich Soprannominato “La Roccia”, è stato insieme a Paolo Maldini il più forte difensore italiano di tutti i tempi, ma soprattutto è stato un grande uomo – leale ed esemplare
Tarcisio Burgnich è stato uno dei calciatori che ho più amato. Ero un bambino tifoso del Milan e di Gianni Rivera ma mi aveva impressionato il terzino dell’Inter nella finale vinta contro il Real Madrid quando annullò Ferenc Puskás ormai vecchiotto ma sempre uno dei giocatori con maggior talento del mondo.
Per spiegare Tarcisio Burgnich ci sono cinque episodi esemplari:
- Mondiali del Messico 1970. Prime riprese televisive con il replay, Semifinale Italia-Germania, sesto minuto del primo tempo supplementare. È un momento terribile per gli azzurri: dopo essere stati in vantaggio per tutta la partita hanno subito il gol del pareggio a tempo scaduto, marcato in spaccata da Schnellinger, un difensore di quelli che non segnano mai. Nella pausa i tedeschi hanno recuperato Beckenbauer, che pareva dovesse uscire per una lussazione alla spalla e invece è rimasto in campo con una gloriosa fasciatura, mentre l’Italia ha perso Rosato, che non è rientrato in campo per i supplementari, sostituito da Poletti. E al terzo minuto proprio Poletti, disorientato, intimidito, su una palla fioca colpita di testa da Seeler, ha innescato il pastrocchio con Albertosi e Cera che ha permesso a Müller di dare la zampata fatale, e la palla è rotolata lentamente in rete.
Il gioco è ripreso e, nel delirio dei tifosi tedeschi, gli azzurri si sono trovati ad arrancare su per un campo che all’improvviso è diventato in salita, inclinato ferocemente verso la loro porta. Occhi vuoti, testa vuota, muscoli vuoti, la finale sta volando via: un momento terribile, appunto; terribile. La palla è ferma nella metà campo tedesca per una punizione che l’Italia deve battere. E mentre Rivera e Domenghini cincischiano, Tarcisio Burgnich che nella sua carriera avrà passato la metà campo sì e no cinque volte; traversa in questo tutto il campo, e dalle profondità della difesa che sempre l’hanno inghiottito, si sperde nell’altrove illuminato da ciò che solo lui ha previsto – e se non l’ha previsto, se l’ha solo sognato, allora fra trenta secondi bisognerà dire che la sua maniera di sognare è potente anche più dei suoi polpacci. Rivera finalmente batte: un lungo traversone nell’area tedesca, dove casca casca, che casca preciso tra i piedi di quel tedesco che – sta scritto lassù, nel librone – oggi deve sbagliare un rinvio, e infatti lo sbaglia, e consegna il pallone sui piedi di Burgnich, smarcato nell’unico punto del mondo e nell’unico istante del tempo che possano fare di lui un centravanti.
Burgnich tira, tira d’istinto, di forza, di rabbia, di vendetta, di disperazione e segna il suo unico gol con la maglia della Nazionale.
Grazie, Tarcisio. Che Dio ti benedica per questa tua prodezza. Che non è stata il gol, ma, prima del gol, quel tuo sogno assurdo di far gol, quell’attraversare tutto il campo, quello spostarti da dove stavi sempre a dove non potevi stare mai. Il più grande movimento senza palla, senza gioco e senza senso della storia del calcio italiano.

L’INTERVISTA-RICORDO
«Nessuna illuminazione mariana, è stata solo la forza della disperazione»
Così dalla sua casa toscana, da dove segnala qualche giovane di talento all’Inter, Tarcisio Burgnich attribuisce alla sua disciplina tattica il merito del fondamentale gol del 2-2 che ci aprì le porte all’indimenticabile 4-3.
«Held, il mio diretto avversario era retrocesso fino alla linea della difesa e quindi non avendo più l’uomo da marcare decisi di varcare la metà campo».
Scelta che raramente il difensore e stopper nerazzurro compiva, visto che le sgroppate di Giacinto Facchetti lo facevano preoccupare e spesso disperare.
«La mia fascia di competenza era quella destra, ma in quel momento mi sono trovato in una posizione piuttosto centrale. Rivera mi aveva visto e forse aveva intenzione di passarmi la palla. Invece la sua punizione finì lunga e proprio Held con il petto mi servì uno dei più comodi assist della mia vita».
Forse un attaccante avrebbe pensato a piazzare la palla tentando il tiro più angolato, invece il difensore italiano…
«Non ci ho pensato un solo istante e ho tirato di sinistro nonostante che il mio piede fosse il destro. Per un terzino la porta avversaria è sempre troppo piccola, ma quel tiro fu preciso e risultò poi determinante. Non esultai neppure tanto, non era mio costume perché non mi è mai piaciuto “dileggiare” gli avversari».
Malgrado queste sue premure per Burgnich gli anni successivi sono stati tormentati dagli sfottò dei suoi grandi amici di quel mondiale.
«Quando ci riuniamo ancora adesso, Domenghini, Bertini, Riva, Rivera e Mazzola mi prendono amabilmente in giro. “Ma come hai fatto a fare un gol così”? E io impassibile ripeto sempre la stessa cosa: che cosa ne so?!?»
2) Quando raccontò il suo Pelé: “Il gol all’Azteca? Io un vero pollo… Un passo fu fatale”
di Andrea Schianchi
Lo scorso ottobre Tarcisio Burgnich in uno dei suoi ultimi incontri con la Gazzetta ricordò la finale del Mondiale ’70 allo stadio Atzeca di Città del Messico. Ecco che cosa ci aveva raccontato.
“Sono stato un pollo, se non avessi fatto un passo in avanti perché pensavo che il cross fosse indirizzato in mezzo all’area e non sul secondo palo… Eh sì, dovevo rimanergli incollato e invece guarda te che cosa ho combinato…”. Tarcisio Burgnich, a cinquant’anni di distanza, riguarda l’azione e ancora non si dà pace. “Uno contro uno, cioè se io sono posizionato correttamente, mica mi salta in testa in quel modo! Ma vi pare? Ho dormito, questa è la verità. E quel gol è tutta colpa mia, altro che merito suo!». Il gol è quello di Pelé nella finale del Mondiale 1970, stadio Azteca di Città del Messico, domenica 21 giugno, Brasile-Italia. Fu la rete che aprì la partita, poi venne l’1-1 di Boninsegna e, nella ripresa, il crollo degli azzurri, già inferiori e inoltre stanchissimi dopo il 4-3 in semifinale con la Germania Ovest. Finì 4-1 per la Seleçao, ma più che al risultato Burgnich ancora riflette su quel gol.
Che cosa ricorda?
“Fallo laterale per loro, sulla fascia sinistra. Lo batte Tostao che appoggia a Rivelino. Un tocco e poi il cross ‘a piombo’ che arriva sul secondo palo. Io avevo immaginato che lo piazzasse al centro e allora avevo fatto un passo in avanti e mi ero staccato dalla marcatura di Pelé. E invece dove a finire il pallone? Proprio dove io non potevo arrivare. E poi Pelé ha fatto quel balzo che tutti hanno visto in fotografia e io ho cercato di ostacolarlo, ma chi ci riusciva?”.
Lei non era destinato alla marcatura di Pelé.
“Inizialmente doveva prenderlo Bertini, perché partiva da dietro. Poi si è spostato in attacco e allora, come succedeva sempre, è toccato a me. Quelli più forti li beccavo tutti io. Valcareggi mi ha gridato di occuparmi di Pelé e io mi sono incollato a lui, però ho fatto quel passo maledetto…”.
Ma il destino della partita non sarebbe cambiato.
“Credo proprio di no, loro erano fortissimi. E noi eravamo cotti. Contro la Germania avevamo dato tutto, anche quello che non avevamo in corpo. E io mi ero tolto una bella soddisfazione, avevo segnato il 2-2 ai supplementari. Per un difensore non era tanto frequente fare gol, a quei tempi”.
E aveva marcato Gerd Muller, mica uno qualsiasi.
“Una faticaccia. Muller era micidiale negli ultimi metri, proprio in area di rigore. Non ti potevi distrarre un attimo”.
E dopo Muller, ecco Pelè.
“Il più grande di tutti. Era completo: destro, sinistro, testa. Faceva gol in qualsiasi modo. E poi aveva uno scatto bruciante e un dribbling micidiale. Mai visto uno così, eppure ne ho marcati di fuoriclasse… Sivori, ad esempio, era fantastico, ma sapevo che usava soltanto il sinistro e quindi riuscivo a cavarmela. Con Pelè era impossibile: se gli impedivi di usare il destro, lui lavorava il pallone con il sinistro. E poi, se arrivava un cross, di testa non ti perdonava mica. Ah, quel passo in avanti…”.
Che cosa aveva Pelé in più?
“La velocità di esecuzione. Pensava e calciava in una frazione di secondo. Nessuno è stato come lui. Eppure ho marcato anche Eusebio, anche Cruijff. E poi O Rei era un uomo-squadra: una sicurezza per i compagni e un tormento per gli avversari. La sua presenza incuteva timore. Se avesse giocato contro le difese di oggi, più ballerine di quelle di una volta, di gol ne avrebbe segnati tremila…”.
3) Mondiali 1974: Polonia-Italia 2-1
“Pigliamo su e portiamo a casa”
“Non ho neppure la forza di indignarmi. Mi sento improvvisamente vecchio e annoiato…”
di Gianni Brera
Pigliamo su e portiamo a casa. Mentre mi appresto a trasmettere queste note, cinque merli sicuramente emblematici ed allusivi beccottano i vermi sgusciati dalle zolle smosse durante l’incontro Italia-Polonia.
Davanti allo stadio, tumultuano alcune centinaia di nostri emigrati che la sconfitta ha indignato assai più di qualsiasi altra calamità nazionale. Il mio cuore, per contro, è gerbido. Non ho neppure la forza di indignarmi. Mi sento improvvisamente vecchio e annoiato.
Parlare in anticipo, già, non è servito a niente, e consigliare ancor meno, perchè i sublimi ingegni che presiedono le nostre pedate si offendono mortalmente della presunzione – altro non vedono – di cui diamo prova pretendendo di impartire consigli ai sublimi ingegni. È certo però che la squadra era logora e mal preparata all’avvio: era incongrua e priva di consistenza quando i tecnici si sono decisi a rifarla a questo modo. E stato escluso Rivera, che veramente non avrebbe dovuto giocare mai per totale perdita di condizione atletica, e per tener buoni i suoi irriducibili innamorati si è messo inopinatamente fuori anche Riva. Era al cinquanta per cento della forma, il leggiunese, ma sempre tale da poter fare meglio di chiunque altro in attacco.
Senza Riva, e lo si era detto più volte, la squadra italiana, quale che fosse, decadeva alle miserabili bassure del ’66, quando l’ha battuta la Corea. Non è dunque da stupire che oggi la sua seconda versione sia stata quasi sopraffatta dalla Polonia. …

La nostra difesa reggeva alla meglio, non proprio male se debbo dirlo: ma al 31′ Szarmach ha spintonato fallosamente Burgnich oltre il fondo: nel cadere, il caro vecchio Taras Bulba si è distorto il ginocchio sinistro: ha dunque dovuto uscire: e al suo posto è entrato Wilson, così riducendo automaticamente del 50 per cento la possibilità, ancora esistente, di rabberciare la squadra.
Wilson è un bravo guaglione, ma porta le lenti a contatto. Le palle alte volanti non le vede se non all’ultimo istante. Non deve neppure avere avuto il sospetto che il cross di Szymanowski al 38′ fosse da gol: si è visto scattare fulmineo Szarmach e incornare, lasciando surplace Morini, e spedire imparabilmente nell’angolino alla sinistra di Zoff, del tutto incolpevole. Ottenuto il gol, i polacchi non hanno fatto una piega. Sono tornati al loro schieramento e hanno seguitato a premere secondo i loro schemi semplici ma efficaci, fatti di larghe battute e di aperture quasi sempre effettuate a colpo sicuro, su un uomo del tutto libero in avanzata lungo l’out.
Gli azzurri hanno avuto una rispettabile reazione in Mazzola: in tandem con Causio, ha aperto una palla che sarebbe stata da gol per qualcuno che so io, non per il timido e stolido juventino, che ha tentato il piatto destro da posizione fin troppo angolata e non ha fatto che mettere in evidenza la bravura del portiere polacco.
Molto più utile sarebbe stato un suo accentramento coraggioso in dribbling, o ancora un cross che cercasse Chinaglia. Il quale, poveraccio, dopo un paio di minuti è stato cercato e trovato da Mazzola in cross alto dalla destra: nonché schiacciare, con quel suo collo di ghisa, Giraffone ha piegato le ginocchia, colpendo goffamente con la volta cranica quella splendida palla-gol, e inviandola naturalmente a volare oltre il bersaglio. Era il 43′, come vedo. Un minuto dopo, Deyna tentava l’ennesimo tiro da fuori e lo infilava ciclonico alla sinistra di Zoff. Era un gol da aspettarsi, e tanto più giustificato in quanto gli azzurri non avevano fatto che sprecarne due possibili nel giro di pochi minuti.

Alla ripresa, non potendo più cambiare che un solo elemento, il povero Valcareggi ha deciso di sostituire Chinaglia con Boninsegna. Molto meglio avrebbe fatto a mandare dentro Juliano, che giocasse da regista come Mazzola, che pur tanto volonteroso, non riusciva affatto (vi è negato, si è sempre visto bene: nonché far giocare gli altri vuol giocare lui, e si strema, incanta i gonzi, non chi vede il calcio alla stregua di un gioco collettivo).
Boninsegna è entrato sprizzando fiamme dalle nari, come quel Miura che sa essere quando gli rugge dentro la taurinità mantovana. Ha dato lui un paio di palle-gol agli altri: non ne ha mai ricevuta una che è una!
Mazzola ha preso a fare lo stornello volante come quando ha da placare la platea di San Siro, sospettosa che non si tratti proprio di un bravo regista. Causio si è sempre più scansato, visibilmente inteso a salvare la faccia (ma quale?) impostando dribbling ritardatari o addirittura persi in partenza. Anastasi ha colto un palo con un bellissimo sinistro da fuori, appena ripreso il gioco, e poi si è dissolto nel polveroncino da lui stesso sollevato le poche volte che lo chiamavano in azione.
Palle-gol ne abbiamo preparate a gran fatica due, per Causio e Benetti: entrambi questi castroni le hanno volute concludere da angoli impossibili: avrebbero dovuto invece vedere i compagni in attesa; non hanno pensato, ahimè, non hanno cervello sufficiente a pensare in simili frangenti: l’egotismo unito all’emozione e alla broccaggine (parlemess ciar) li ha indotti a tentare personalmente il gol e hanno solo esaltato il portiere avversario.
Gianni Brera
4) Napoli 1974-75
Burgnich nel 1974, all’età non più verde (35 anni) viene messo sul mercato dall’Inter, lo acquista il Napoli, Vinicio lo vuole a tutti i costi: gli serve un libero esperto per applicare al meglio la tattica del fuorigioco, novità assoluta per il Napoli.
Luis Vinicio «Secondo me la zona resta il tipo di gioco più redditizio, ricordavo i miei tempi da calciatore. C’erano delle marcature strettissime, si giocava per novanta minuti fuori dalla propria zona perché si doveva seguire il proprio uomo ovunque. Veniva così tolta alla squadra la possibilità di esprimersi, di imbastire azioni. Invece, un avversario deve essere controllato dal giocatore più vicino a lui. In possesso dì palla, il discorso è diverso, tutti devono partecipare, mettersi a disposizione affinché la palla giri. Ricordo che in tutte le mie squadre, dall’Internapoli al Brindisi alla Ternana, avevamo un gioco fluido, bello. Ci vogliono giocatori all’altezza, che sappiano marcare e giocare. Inutile fare la zona quando hai uomini poco disponibili. Nel Napoli, al primo anno, non fu possibile, perché il libero era Zurlini: lento, comportava dei rischi. Ma con l’arrivo di Burgnich, impiegato in linea con i difensori, applicammo la zona totale».
Il modulo di gioco di Vinicio provocò molte discussioni nel mondo del calcio di quell’anno, per molti era un profeta ma Gianni Brera, italianista di ferro, lo contestò con particolare vis polemica: «ho già avuto occasione di dire che è cervellotica e pericolosa: qualcuno si è sdegnato: subito dopo è scesa la Juventus a Napoli e ha vinto 6-2. Era la stessa Juventus che aveva penato a battere la Roma e l’Inter. Il Napoli non ha ritenuto di doverla rispettare e le sì è spalancato addossando i difensori ai centrocampisti: nelle molte pertiche libere davanti a Carmignani, gli juventini si sono avventati a turno creando come minimo dodici palle gol. Allora Vinicio ha ammesso di essere ancora giovane, come tecnico, e di dover imparare molte cose. E sembrato a tutti pieno dì umiltà e saggezza. Si è poi saputo che, prima di dichiararsi tanto umile, il brasileiro aveva tentato di scagionarsi addossando ai centrocampisti la responsabilità di quella Waterloo. I centrocampisti gli hanno risposto per le rime. Se rimarrà ancora in sella, converrà a Vinicio di mettere Burgnich al suo posto e di giocare come cercano tutti in questa valle di lacrime, stretti a difesa e larghi in attacco».
Il Napoli terminò il campionato al secondo posto alle spalle della Juventus. Con il primato assoluto di gol fatti ma anche un pugno di mosche in classifica. Allora non c’era la Champions League, chi arrivava secondo si doveva accontentare della Coppa Uefa e quel risultato venne considerato uno smacco più che un successo. Vinicio restò ancora una stagione, ma il Napoli sbarazzino e “zonista” duro e puro dell’autunno 1974 non si sarebbe rivisto più.
Vinicio riprodusse la piccola utopia di quel modulo: «Con la Lazio» spiegava, cioè col successivo e suo ultimo approdo di grido, «non fu possibile, perché avevo Wilson che giocava venti-trenta metri dietro a tutti. Se si allunga la squadra, è un suicidio fare questo tipo di gioco. Bisogna giocare contratti, corti, per correre meno pericoli e non lasciare spazio agli avversari. E così si creano anche più difficoltà a chi deve offendere perché la marcatura è immediata. Non c’è dispendio di energie: gli uomini agiscono in pochi metri. Il pressing? E fatto dì scatti brevi, non lunghi. Il libero che diventa anche marcatore deve saper comandare e dare tranquillità e distanze. E vorrei sottolineare che Sacchi è arrivato alla esasperazione del pressing. C’è da discutere sul gioco del Milan: nella maggior parte dei casi i rossoneri ricorrevano al fallo perché andavano in pressing tre-quattro uomini. Le mie squadre stavano sempre nel lecito, un uomo solo in marcatura e altri due pronti a intervenire. Raramente il fallo».
Perdute le sue stimmate di innovatore, Vinicio andò incontro a un rapido declino.
5) Chi è, dunque, Tarcisio Burgnich? Un uomo tutto d’un pezzo, gran lavoratore, taciturno ma niente affatto musone, onesto come usava ai tempi andati, innamorato del calcio, dal quale ha avuto tutto, ma al quale molto ha dato. E’ sua, e di un altro furlan, Ezio Pascutti, una delle foto più famose degli ultimi vent’anni (vedi sotto): quel volo a due per colpire di testa il pallone. Arrivò… primo Ezio e fu gol, un gol strepitoso, memorabile, eternato dall’estro fortunato di un fotoreporter abile e svelto come i due campioni.
A chi gli chiese cosa ne pensasse di quel famoso gol, lui, tutto serio e compunto, rispose: «Eh, sì, Pascutti me l’ha fatta. Pensa: io avevo capito che il cross sarebbe piovuto dalle nostre parti e siccome Ezio lo conosco bene, mi sono buttato in tuffo prima di lui, per anticiparlo. Sono in volo e intravvedo un fulmine che mi sfreccia… sotto, sento lo splash della pelata di Ezio che incoccia il cuoio del pallone, gol. Ero scattato per primo, sono arrivato secondo… Un gol così poteva segnarlo soltanto un campione come Ezio. In fondo, mi ha fatto perfino piacere che gli sia riuscita una prodezza del genere».
Burgnich, da giocatore, era fatto così. Inesorabile nei controllo dell’uomo, leale e cavalleresco nel riconoscere le piccole sconfitte che in una partita doveva, fatalmente, conoscere anche un asso come lui.
Biografia
Tarcisio Burgnich, nacque il 25 aprile 1939 a Ruda diventa campione d’Italia in bianconero nel 61, che l’anno successivo, un po’ stranito e disorientato, finisce a Palermo.
Mica che Palermo non sia una magnifica città, con un clima dolcissimo e tanta spiaggia dalla sabbia dorata. Ma, capirete, per un furlan di scorza dura ( ha giocato i due primi campionati di A ovviamente nelle file dell’Udinese, prima di emigrare a Torino), dico per un furlan tutto d’un pezzo trovarsi a Palermo fu un colpo basso, poco da dire. Ma, niente paura.
Questo giovanotto taciturno e perennemente accigliato, che aveva contribuito allo scudetto della Juve con 13 presenze suscita l’interesse della grande Inter di Moratti Allodi e H.H., e così come velocemente era calato dal Nord al Sud, risale dal Sud al Nord. E approda alla corte nerazzurra per far coppia con Giacinto Facchetti, i due si integrano a meraviglia, Tarcisio si becca la punta più forte della squadra avversaria, gli mette il bavaglio mentre Giacintone svolazza a tutto campo per segnare i primi gol italiani di un difensore di ruolo.
Nasce così una delle coppie di terzini più famose e forti di tutto il nostro calcio.
Tarcisio Burgnich, fra il lusco e il brusco, vince altri quattro scudetti (dopo quello fugacemente conquistato a Torino con la maglietta della Juve), vince un paio di Coppe dei Campioni, gioca qualcosa come 66 partite in Nazionale, segna due gol, uno dei quali resta consegnato alla storia della Coppa Rimet. Eh, già, perché si tratta del gol del momentaneo due a due all’Azteca, in quella girandola stordente di reti e di emozioni che fu il 4 a 3 fra l’Italia e la Germania Ovest, Burgnich ci mise lo zampone anche lui, una fulminea proiezione offensiva (lui, che non avanzava mai, mastino tenace da area di rigore) un tocco e Maier dovette inchinarsi…
Poi anche l’Inter fa la sua brava fesseria, nel 1974. L’età non più verde (35) e i dubbi sulla sua ripresa fisica dopo un infortunio convincono i nerazzurri a cederlo. In effetti sembra proprio avviato sul viale del tramonto, tanto più che si sente quasi appagato da tanti anni disputati ad alto livello, pieni di successi. Vinicio però lo vuole a tutti i costi: gli serve un libero esperto per applicare al meglio la tattica del fuorigioco, novità assoluta per il Napoli. Accetta con entusiasmo e sente che può dare ancora qualcosa al calcio. Burgnich disputa una stagione straordinaria: 36 anni 30 partite su 30! Determinante risulta la sua esperienza in quel meraviglioso Napoli del 1974-1975, che si classificò 2°. L’anno dopo vince l’ultimo trofeo vacante nella sua già ricca bacheca; la Coppa Italia. Gioca la sua ultima partita il 22/5/1977 contro la Fiorentina arrivando a sfiorare le 500 presenze in serie A (alla fine saranno 494).
In Nazionale, “Mondino” Fabbri lo fa esordire in nazionale A il 10/11/1963 nel match di ritorno valevole per gli ottavi di finale della Coppa Europa contro l’U.R.S.S. del mitico “Ragno nero” Lev Jascin (per la cronaca finì 1-1 con Italia, ahimè, eliminata). Indossa per ben 66 volte la maglia azzurra chiudendo la sua epopea infortunandosi, causa uno strappo, durante Polonia-Italia 2-1 del 23/6/1974, gara che sancì l’eliminazione dai mondiali nella Coppa del mondo 1974.
Terminata la carriera, Tarcisio torna al Nord, destinazione Coverciano, supercorso per allenatori diretto da Allodi. Guadagna il suo bravo diploma Da qui una carriera che si dipana tra Bologna, Como, Foggia, Lucchese, Cremonese, Genoa e Vicenza senza tuttavia picchi di gloria come avrebbe senz’altro meritato.
Stagione | Squadra | Pres. | Reti |
---|---|---|---|
58-59 | UDINESE | 1 | – |
59-60 | UDINESE | 7 | – |
60-61 | JUVENTUS | 13 | – |
61-62 | PALERMO | 31 | 1 |
62-63 | INTER | 31 | – |
63-64 | INTER | 33 | – |
64-65 | INTER | 31 | 1 |
65-66 | INTER | 30 | – |
66-67 | INTER | 30 | 2 |
67-68 | INTER | 30 | – |
68-69 | INTER | 30 | 1 |
69-70 | INTER | 26 | 1 |
70-71 | INTER | 29 | – |
71-72 | INTER | 27 | – |
72-73 | INTER | 30 | – |
73-74 | INTER | 30 | – |
74-75 | NAPOLI | 30 | – |
75-76 | NAPOLI | 30 | – |
76-77 | NAPOLI | 24 | – |
Totale | 493 | 6 |