Il testamento intellettuale di Luciano Gallino

per nicola
Autore originale del testo: Nicola Boidi

di Nicola Boidi

Non ho la fortuna, che appartiene ad altri, di poter vantare memorie personali o aneddoti relativi a una conoscenza personale del grande sociologo ed economista Luciano Gallino che, è la funesta notizia che ha intristito questa domenica di novembre, ci ha appena «abbandonati» dopo un lungo e travagliato percorso di malattia. Il mio unico ricordo di un contatto diretto, più da spettatore che di comunicazione diretta con il riservato professore, risale a nove anni fa in occasione di una conferenza tenutasi presso la sede della CGIL di Alessandria, in occasione della presentazione di uno dei suoi saggi: L’Italia in frantumi. Era una collazione di articoli scritti per i quotidiani in cui si disegnava un quadro compiuto ed esaustivo (come era nello stile dell’intellettuale torinese) della frantumazione dell’economia e della società italiana di quegli anni del Governo Berlusconi II° « la vendetta», stretta nella morsa tra la «delocalizzazione» ed esternalizzazione selvagge all’estero delle attività produttive e la deregulation sui contratti di lavoro della Legge Maroni (più nota come legge 30).

Quei processi e la legge suddetta appunto «frantumavano » i diritti sul lavoro e scavavano un solco tra i lavoratori garantiti dai contratti di lavoro a tempo indeterminato, «vestigia» di un’età precedente, e i «nuovi» lavoratori a tempo determinato, nuovamente ridotti a «merce»: da lì a poco non a caso Gallino avrebbe pubblicato: Il lavoro non è una merce. Il tono sommesso e austero con cui Gallino presentò il tema di quel saggio in quella occasione faceva tutt’uno dell’uomo e dello studioso, più portato ad analizzare rigorosamente e compiutamente i suoi oggetti di ricerca nei suoi scritti che ad ammaliare con un’abilità oratoria suadente nella presentazione delle sue fatiche , come a dire: « quello che posso darvi qui è solo una traccia, delle breve annotazioni, ma è nel mio scritto che troverete tutto quello che cercate».

Non sta a me, in questa occasione, rammentare la ricchissima carriera intellettuale di uno dei pionieri in Italia della disciplina della sociologia, formatosi al Centro di ricerche e studi dell’altrettanto pionieristica industria informatica Olivetti di Ivrea, presso uno dei pochi illuminati capitani d’impresa nella storia di questo paese, Adriano Olivetti, tra anni cinquanta e sessanta (una formazione diretta sul«campo» dunque) per poi diventare, tra i moltissimi prestigiosi incarichi ricoperti , ordinario di sociologia del lavoro presso l’università di Torino tra gli anni 70 e gli anni 2000.

 Mi limito qui a tentare di tracciare quello che a mio avviso può essere configurato come il suo testamento intellettuale di una vita di ricerca rigorosa, inflessibile e indefessa, sempre segnata da onestà intellettuale. Quel testamento o quell’eredità che è emersa nell’ultimo ciclo dei suoi lavori (tra il 2009 di Con i soldi degli altri. Il capitalismo per procura contro l’economia, e il recentissimo Il denaro, il debito e la doppia crisi spiegati ai nostri nipoti, rilasciato alle stampe non più tardi di un mese e mezzo fa).

 Il ciclo in questione di opere comprende due saggi, sempre a mio modestissimo avviso, degni di essere tramandati alla memoria delle future generazioni: Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi e Il colpo di stato di banche e governi. Attacco alla democrazia in Europa. E’ come se la mole impressionante di analisi di processi, dinamiche, dati e numeri (dati e numeri senza i quali non si dà ricerca sociologica ed economica scientifiche) avesse finalmente trovato la sua coagulazione, il suo quadro d’insieme, il suo affresco a 360 °gradi ad indicarci e a darci tutti gli elementi per comprendere da dove proviene l’attuale e globale gravissima crisi economica , sociale e politica, e dove ci sta dirigendo.

 In questo affresco compiuto, chissà forse anche sotto la spinta dell’urgenza dettata dalle sue condizioni personali, il sociologo ed economista si fa antropologo, anzi direi di più, filosofo politico e della storia, per dirci che i processi e i fenomeni in corso , nella loro assurda, folle e irrazionale corsa verso l’ignoto (o verso il baratro?), non sono più spiegabili in modo sufficiente con le sole categorie, principi e leggi dell’economia, della sociologia e della politologia, ma presentano la necessita di attrezzarci con le categorie dell’antropologia e della psicoanalisi. Non si spiegherebbe diversamente perché, dopo aver esaustivamente e «implacabilmente» analizzato i meccanismi di funzionamento e di proliferazione del capitalismo finanziario, nel nono capitolo di Colpo di Stato di banche e governi, Gallino tenti di disegnare il modello di una «mutazione antropologica» che lui denomina homo aeconomicus. Questo modello deve darci il motivo del perché , attraverso un processo durato almeno alcuni decenni, siamo giunti a un punto in cui la «neoacasta» di signori del pianeta, Le nouveau regime di capitalisti finanziari o «finanziarizzati» e dei loro collaboratori «domestici» (i rappresentanti politici dei governi e di molte delle istituzioni accademiche così come dei poteri dei mezzi di comunicazione di massa) dunque i «dominatori», s’incontrino e vadano a braccetto con i «dominati». Solo un’interiorizzazione dei meccanismi di dominazione, una loro assimilazione come una seconda natura da parte di coloro che li subiscono, per cui risulta del tutto incomprensibile l’aspirazione a una libertà e a una dignità materiale e morale della persona, a un «umanesimo» che rifiuti decisamente la riduzione di ogni aspetto dell’esistenza a semplice merce, può spiegare questa solidarietà tra potenti e impotenti.

A costruire la sua categoria di homo aeconomicus Gallino convoca tutte le dottrine, le analisi e le interpretazioni di lunga lena che hanno caratterizzato il pensiero marxista critico (cioè non prono all’ortodossia leninista – stalinista) del novecento, dalle categorie «francofortesi» di «ragione strumentale» di Horkheimer, di «dialettica negativa» di Adorno, o di «uomo a una dimensione» di Marcuse, al dispositivo di «sapere-potere» e di «microfisica del potere» di Foucault, e più in generale al connubio «felice » tra marxismo e psicanalisi freudiana.

 Ma quello che è straordinario in questo esito del cammino intellettuale di Gallino, è che egli ci arriva, anzi ci porta «per mano» quasi come una conseguenza o uno sbocco naturale della sua indagine sociologica ed economica di decenni. Se, dati, cifre ed esempi alla mano, la «legge di estrazione di valore» (la massimizzazione del profitto mediante meccanismi di mera speculazione finanziaria) che comanda il grande capitalismo delle corporations, viene perseguito ciecamente e ostinatamente, come una fede religiosa (o come una coazione a ripetere, una «pulsione immortale di un godimento cieco» ci direbbe Lacan) nonostante gli evidenti segni della sua assoluta potenza distruttiva e autodistruttiva (tale da «tagliare il ramo su cui si trova seduto sopra», cioè il suo stesso contesto sociale) è evidente che le sole categorie economiche, sociologiche e politologiche, non sono sufficienti e richiedono un’integrazione di quelle altre categorie antropologiche, psicoanalitiche, e, in una parola, di filosofia della storia.

Quello che sinceramente trovo commovente in questa volontà di Gallino di tramandare un’eredità intellettuale alle giovani generazioni ( non a caso il suo ultimo saggio rilasciato alle stampe s’intitola Il denaro, il debito e la doppia crisi spiegati ai nostri nipoti) è che accanto all’analista che guarda in faccia e scruta fino in fondo la realtà che gli sta di fronte, dalle dinamiche «iperoggettive» dei processi economici, alle dinamiche soggettive più profonde dell’inconscio individuale, egli assume anche la veste dello studioso pragmatico che, nonostante tutto, ci propone soluzioni pratiche da seguire da opporre a questo quadro così funesto. E’ come se ci dicesse : sì, sono l’economista e filosofo marxista che vede tutti i segni o i sintomi che preannunciano un futuro crollo del sistema, il pessimista della ragione; ma sono anche il pragmatico, keynesiano, ottimista della volontà che vuole contrapporre la possibilità di studiare e trovare soluzioni alternative, rimedi e riforme che possono ancora mutare la direzione di marcia dell’economia, della politica e della società. E’ quello che puntualmente ha fatto in questi saggi Gallino con una serie di proposte di azione di riforma dello status quo.

 Dunque il rigore del sociologo e dell’economista unito alla visione «filosofica», completa e a 360° del processo in corso. Se mi guardo intorno, sinceramente non trovo un punto di riferimento analogo nelle fila né degli accademici né degli uomini politici o degli intellettuali in genere del nostro paese e fatico anche a livello internazionale. Bravi specialisti delle diverse discipline, sì – economisti, sociologi, politologi, filosofi, psicanalisti – dotati anche di pensiero critico, ma ognuno chiuso nel suo specialismo accademico, senza quella mirabile capacità di combinazione tra analisi rigorosa, visione d’insieme e anche capacità divulgativa, che l’intellettuale torinese ci trasmetteva. E’ come se, nel guardare la «mutazione antropologica nell’homo aeconomicus» in corso, Luciano Gallino si sottraesse ad essa (come persona di «un’altra epoca» ) e ci trasmettesse questo insegnamento in eredità. Nel sapere la notizia della sua scomparsa, oltre la mestizia che mi ha colto, il primo pensiero è stato di quello di sentirmi abbandonato, del tipo: «e adesso , chi mi darà delle analisi altrettanto illuminanti e compiute?».

 E’ un pò un sentimento analogo a quello provato da chi viveva a fianco di quell’altro intellettuale che tanti anni fa vedeva venire avanti la mutazione antropologica attualmente in pieno corso, e di cui è ricorso pochi giorni fa il quarantennale dalla tragica scomparsa. Ebbe modo di dire allora infatti la cugina di Pier Paolo Pasolini che gli faceva da segretaria:« da quando Pier Paolo è scomparso ci sentiamo tutti un po’ più soli e un po’ meno intelligenti».

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