Fonte: politicaPrima
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di Giuseppe Scaravilli – 19 settembre 2015
In questa nostra Italia succede di tutto: Abbiamo trazzere, dove una volta ci passavano i muli, gli asini e qualche carretto per andare nelle campagne a lavorare la terra;
poi queste trazzere sono state asfaltate e malamente trasformate in strade ma, sia per la morfologia del territorio e poi per incuria, nei fatti sono rimaste delle trazzere. Ogni tanto si fa la manutenzione “straordinaria” ma sostanzialmente rimangono quelle d’origine.
Mi riferisco a certe strade nel territorio interno della Sicilia, che conosco bene, come il collegamento Bronte – Cesarò – San Teodoro, tra il parco dell’Etna e il parco dei Nebrodi, dove sistematicamente i punti critici rimangono quelli di “sempre”.
E così altrove in questa terra. La famosa “trazzera di Caltavuturo” è diventata un caso emblematico. Trasformata in strada d’emergenza dalla buona volontà di cittadini del luogo, vuole essere un monito, uno stimolo, ed anche un richiamo, per le istituzioni perché “non dormano “, ma si attivino per costruire strade ben fatte che durino nel tempo. E intervengano con tempestività quando c’è l’esigenza di ricollegare intere zone rimaste isolate o come nell’incredibile situazione dell’A19, Palermo Catania. Questi sono i momenti nei quali non ci si può perdere nei meandri di infinite discussioni e procedure infinite.
Poi abbiamo le frane endemiche, quelle persistenti e quelle croniche: a) Le frane endemiche rispuntano improvvisamente e tutti si meravigliano del perché appaiono, si sa che avvengono in determinati periodi ma non si fa nulla per impedire che ciò accada; b) Quelle persistenti, nella realtà non erano mai scomparse, perché nessuno si è presa la briga di intervenire per tempo; c) Le croniche sono le frane che “oramai ci sono” e ce li teniamo, tanto che possiamo fare? Il terreno è quello che è. La colpa è degli altri, della natura, mai di “chi dovrebbe essere”, si gira attorno al problema, ed intanto le frane ci sono, rimangono e fanno disastri. E i piloni che dovevano sostenere i ponti, e assicurare il congiungimento tra un territorio e l’altro, ma (guarda caso) crollano, per l’usura del tempo, forse per mancata manutenzione, per ignavia, per incuria, per menefreghismo degli enti preposti alla manutenzione e al controllo.
Però, mi si consenta di dirlo, questo vale per tutta Italia senza distinzione tra il Sud e il Nord, e le strade crollate in questi ultimi giorni nel Piacentino, le situazioni endemiche in Liguria ed in altre zone ne sono l’esempio. Certo, se succede nel Meridione la colpa sarà sempre della classe politica scarsa, della presenza della mafia e via dicendo. Se invece succedono le stesse cose similari nel Nord, la responsabilità è del clima, delle bombe d’acqua, dell’imprevedibile.
Diciamoci la verità, l’ambiente si cura e si difende con tanto impegno e buona volontà, rispettando la natura, pulendo i corsi d’acqua, facendo la manutenzione ordinaria delle strade, dei ponti, facendo prevenzione in modo che nel “solito punto” dove all’improvviso spunta la frana, ecco: la frana non spunti più.
E, dulcis in fundo, le “incompiute”. Una particolarità tutta italiana che fa rabbrividire. I dati 2014 diffusi dall’’Anagrafe delle opere pubbliche incompiute di interesse nazionale ci consegnano 868 opere mai completate, nel 2013 erano 692. Strade, dighe, stazioni, ospedali, linee ferrate, impianti sportivi, teatri, porti, un tripudio immondo che deturpa l’ambiente e che ha drenato immense risorse economiche senza risolvere uno dei problemi per il quale quell’opera era stata immaginata.
Il primato, però, spetta alla Sicilia. E non poteva essere diversamente. 215 opere, il 25% del totale, che fanno ormai parte dell’archeologia delle costruzioni e dell’ignominia umana. Progetti degli anni 60, lavori iniziati e interrotti innumerevoli volte per intoppi burocratici e le motivazioni più fantasiose. E per sopraggiunte infiltrazioni mafiose. Non ci facciamo mancare nulla.
I casi da riportare, anche quelli più eclatanti, sono veramente troppi, ci vorrebbe più di un articolo. Ma almeno uno è bene ricordarlo.
La diga di Blufi, nelle Madonie palermitane. Il progetto, del 1963, era stato concepito per distribuire acqua all’assetata provincia di Agrigento e Caltanissetta. Pensate che nella città dei Templi ancora oggi l’acqua corrente nelle case è un pio desiderio. I lavori, nientemeno, iniziano nel 1990, dopo trent’anni, ma non arrivano mai a compimento. 260 milioni di euro spesi ma per finirla ce ne vorrebbero altri 150. Peggio di così.
Dopo la Sicilia c’è la Calabria, 93 opere, la Puglia con 81 opere. Sembra, invece, incredibile il dato della provincia di Bolzano, solamente otto opere non completate, la Val d’Aosta con una sola. E, da non crederci, la provincia di Trento: zero incompiute. Sarà il clima.
Ecco, sarebbe il caso di finirla con gli “annunci spot”, si passi alla concretezza, agli interventi veri e immediati lì dove serve, sui piloni, sulle frane, sulle strade, in modo serio e definitivo. Non serve apparire efficienti. Occorre essere “EFFICACI” sul serio, cioè metterci l’impegno necessario perché finalmente si risolvano i problemi in modo definitivo.


