La società (politica) dei due terzi

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Alfredo Morganti,

di Alfredo Morganti – 18 aprile 2016

Ieri si è votato. Il voto non è mai neutro, si vota sempre a favore di qualcosa e contro qualche altra. A favore di un quesito, nel caso, ma anche di uno schieramento. Il voto ‘tecnico’ non esiste, per quanto il premier e i commentatori lo evochino, condannando chi avrebbe voluto ‘politicizzare’ proprio il referendum sulle trivelle. Ieri, insomma, si è semplicemente votato. In una democrazia è un diritto e una festa nello stesso tempo. Senza le urne, di una democrazia non rimane nulla, e non saranno degli astensionisti-boicottatori a salvarla, nel caso. Educare al non-voto (lo si è fatto, come no, rivendicandone persino il diritto costituzionale) è quanto di peggio si possa fare dinanzi a ragazzi di 18 anni che vanno a votare la prima volta. Al compimento della maggiore età oggi diamo loro 500 euro di bonus da spendere nei negozi di fiducia, ma gli diciamo pure di non andare a votare, o di farlo solo quando è il premier a invocare il plebiscito. I commentatori politici e il Partito del Ciaone, intanto, hanno continuato a parlare di ‘spallata’, adducendo, in termini sottintesi, che le spallate non si debbono dare, che non è bello ‘utilizzare’ i referendum per colpire il governo. E dunque se il voto diventa ‘spallata’ è meglio, probabilmente, andare a votare solo quando è il governo stesso a invitarci a farlo, perché un governo non dà mai spallate a se stesso. Almeno sinché non scatteranno fronde, come già sta accadendo peraltro (vedi il caso Guidi).

Fatevi due conti. Se un terzo degli elettori vota per le trivelle, e un altro terzo circa si astiene per abitudine (facendo risparmiare al governo il compito di convincerli a non votare), i ‘fiancheggiatori’ renziani si riducono circa all’altro terzo. Pari e patta, insomma. Un’Italia spaccata in tre, altro che in due. C’è poco da stare allegri, insomma. Anche perché a questa frantumazione sociale ne corrisponde una politica, intraistituzionale, quella tra l’esecutivo e le Regioni che hanno promosso il referendum. La disintermediazione renziana ha insomma trovato un nuovo e più avanzato terreno di lotta. Il riaccentramento di funzioni presso lo Stato (leggasi governo, leggasi Renzi) fa capire che è in corso il concreto tentativo di riassorbire i poteri locali entro i limiti del nuovo Re Sole, per rendere più smart le decisioni, e anche più soffuse e sottintese rispetto alla curiosità dei cittadini e dei poteri locali. E poi dice che sarebbero stati i promotori del referendum a politicizzarli. Pensateci. Il governo avrebbe potuto evitare il sesto quesito, semplicemente spostando una virgola sulle norme in vigore. Non lo ha fatto consapevolmente, sapendo a cosa si andava incontro, perché voleva lo scontro, voleva la resa dei conti con le regioni e una ‘vittoria’ elettorale (si sa che la vittoria arride agli audaci!). Se c’è stato questo referendum è stato più per responsabilità dell’esecutivo che dei promotori. Lui voleva il bagno di sangue, voleva comparire alle 23 e un decimo di secondo in TV per dire: ho vinto, e adesso faccio piazza pulita. Come aveva già detto? Ah sì, dopo il referendum costituzionale gli oppositori li spazzeremo via. Così. È il suo metodo. A meno che non perda, com’è accaduto,e allora se ne va in fretta a tenere discorsi alle truppe italiane in Libano o in Afghanistan bardato nella mimetica. Come tutti i condottieri, se vincono spazzano via gli oppositori e si fanno costruire archi di trionfo, se perdono si rifugiano da qualche parte o si chiudono in casa in attesa di sorte migliore.

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