“Tra donne sole” composto da Pavese dal 17 marzo al 26 maggio 1949

per Gian Franco Ferraris

“Tra donne sole” composto da Pavese dal 17 marzo al 26 maggio 1949.

‘Tra donne sole’ breve romanzo scritto nel 1949 e successivamente sceneggiato per il film “Le amiche” di Michelangelo Antonioni (1955).

A conclusione del lavoro, il 26 maggio, Pavese scrive: «Finito oggi Tra donne sole. Gli ultimi capitoli scritti ciascuno in un giorno. Venuto con straordinaria, sospetta facilità. Eppure si è chiarito a poco a poco e le grandi scoperte (viaggio nel mondo sognato da piccolo e ora vile e infernale) sono venute quasi dopo un mese, ai primi d’aprile. Ho avuto un bel coraggio. Ma sospetto di aver giocato di figurine, di miniatura, senza la grazia dello stilizzato. L’assunto non era tragico?» 

La storia è quella di Clelia,  nata a Torino da una famiglia povera, ma che a Roma, riesce con il lavoro e le sue capacità ad emanciparsi: Adesso è autonoma sul piano economico, indipendente su quello sentimentale, la donna è ormai diventata una modista affermata, viene incaricata dalla ditta per cui lavora di gestire un atelier nel centro di Torino.

Tra donne sole si apre con il ritorno di Clelia a Torino sotto l’ultima neve di gennaio. Siamo nell’immediato dopoguerra, la città prova a mettersi alle spalle la tragedia del conflitto. Uscendo in giro a passeggiare si incontrano case diroccate, quartieri feriti, ma si sente anche nell’aria la consapevolezza che si sta voltando pagina. Questo paesaggio apparentemente è vicino alla poetica del neorealismo, ma traspare l’eterna città provinciale che si crede vicina a Parigi, Clelia si immerge in una movimentata vita notturna, fatta di party, veglioni, vernissage, amori proibiti, menage a trois, rapide gite in Liguria, un viaggio che si rivela presto una discesa in un affollato deserto sociale, dove maldicenza, frivolezza, buone maniere, incapacità di sentire gli altri, scavano un profondo buco nero e il romanzo ricorda La nausea di Jean-Paul Sartre uno dei più grandi capolavori dell’esistenzialismo. Pavese trae la stessa conclusione alla domanda: Quali sono le relazioni tra l’uomo e la sua esistenza? L’uomo è solo e non si può far nulla per sfuggire a questa condizione. Solo è Antoine Roquentin, il protagonista del diario filosofico di Sartre , soli sono gli altri, tutti gli altri protagonisti del breve romanzo di Pavese.

Clelia è l’unica ad a vere occhi per vedere la realtà e questo è il tratto originale del libro, Pavese scrive in prima persona, nei panni di Clelia, e racconta di un gruppo di personaggi, soprattutto femminili, appartenenti alla borghesia torinese e mette in contrasto il mondo del lavoro con la noia dei giorni vuoti e ripetitivi dei divertimenti mondani.

L’autodeterminazione le ha donato uno sguardo più aperto e forse più amaro sulle cose del mondo: quando Clelia va in cerca del suo vecchio quartiere, il sentimento che la muove è duplice: nostalgia del passato, sollievo di non farne più  parte. Tuttavia il romanzo non si riduce alla contemplazione del luogo di origine, “tra donne sole” esplora temi profondi come la solitudine, l’incomunicabilità e la crisi esistenziale.   Torino, descritta come una città ambivalente, è accostata simbolicamente a una realtà opprimente e alienante, lontana dall’immagine eroica della Resistenza per cui è stata insignita della Medaglia d’Oro al Valor Militare

La prima sera a Torino, Clelia pernotta in un albergo e nell’affacciarsi nel corridoio per chiamare la cameriera vede un gruppo di persone davanti a una porta e una ragazza, che aveva tentato il suicidio, uscirne in barella. A un veglione conosce l’ambiente di quella ragazza, Rosetta Mola, che fa parte di un giro borghese di ricchi, di nobildonne, di professionisti e anche di pittori. Ascolta i discorsi cinici di Momina, della bella Mariella, della stravagante Nenè. Sono tutte insieme le donne sole che danno il titolo al romanzo e incarnano diverse sfaccettature di solitudine e insoddisfazione, circondate da uno stuolo di maschi che brillano per insignificanza tra nuovi dongiovannismi e il vecchio patriarcato.

Clelia, pur seguendo a disagio, la vita futile di quelle donne, sa mantenere il suo equilibrio lavorando con serietà, tant’è che la sua unica notte d’amore vero la concede a Becuccio, “un giovanotto col maglione, coi calzoni militari”, fin dall’abito si intuisce che è comunista, caposquadra lavora per la nuova boutique. Becuccio sa scherzare, se, quando è invitato da Clelia a “una festa di un pittore” le risponde”: No padrona …non arrivo più in là dei ceti medi” e conserva la propria identità.

Tutto il romanzo è intriso di finzione e incomunicabilità che si manifesta con una fitta rete di dialoghi, pettegolezzi, frasi di circostanza, allusioni, che mascherano un profondo vuoto esistenziale. Il destino viene ad abbattersi inesorabilmente su Rosetta, la più giovane: ritenta il suicidio e questa volta non riesce a salvarsi. La trovano in una stanza che aveva preso in affitto morta per il veleno ingerito. Pettegolezzo e suicidio sono gli estremi tra cui si muove “Tra donne sole”.

Il libro attirò non a caso l’attenzione di Michelangelo Antonioni, che se ne fece ispirare per girare nel 1955 “Le amiche” . Il film restituisce molto bene l’atmosfera angosciosa del libro, il regista riprende anche un tema presente nel romanzo, il dualismo tra Torino e Roma, tra la falsità cortese e la schiettezza più sboccata, la cupa efficienza e la beffarda inoperosità, l’eterna provinciale e la città dell’eterno potere ridotta a paesone.

Il regista tristerello si è pure concesso qualche battuta d’alleggerimento sul rapporto Torino-Roma. A Roma le signore vogliono spendere poco e sembrare molto ricche, a Torino invece, spendono molto ma vogliono sembrare dimesse.

L’opera riscosse un buon successo di critica e venne premiata con il Leone d’argento alla 20ª Mostra internazionale del cinema di Venezia. Intessuto di dialoghi essenziali e di aspro rigore psicologico, il dramma inscenato nel film da Antonioni si discosta alquanto dal romanzo di Pavese, ma ne restituisce bene la profondità e l’amarezza. Film soprattutto psicologico, Le amiche descrive in modo lucido i rapporti di classe e l’annoiata crudeltà che anima gli ambienti borghesi. L’attenzione del regista, in accordo con i temi tipici della sua filmografia, è rivolta principalmente alle protagoniste e all’ambigua condizione che esse incarnano: donne ricche, in apparenza libere ma pronte a rivelare la loro dipendenza dall’uomo, che viene presentato come un essere fragile sul piano umano ma forte nel (e del) suo ruolo sociale. Sorretto da un’ottima fotografia di Gianni Di Venanzo (in particolare negli esterni torinesi) e dalle musiche di Giovanni Fusco, Le amiche manifesta un rigore formale anche nei costumi.

Il film è stato segnalato dal quotidiano statunitense Los Angeles Times come fonte d’ispirazione della serie televisiva Sex and the City.

Ma cosa hanno percepito i primi lettori di questo libro Pavese? il giudizio di due lettori privilegiati e legati a Pavese Augusto Monti e Italo Calvino fu molto critico: Monti, l’insegnante del liceo d’Azeglio che con l’insegnamento di un rigoroso metodo di studio, influenzò Pavese insieme a Leone Ginzburg, Norberto Bobbio, Massimo Mila e tanti altri, lo rimproverò di essere dannunziano nei racconti ‘Il diavolo sulle colline’ e ‘Tra donne sole’. Pavese rispose il 18 gennaio del 1950:

“Caro Monti, quando ho letto il paragone con Pastonchi, “l’altro dannunziano”, ho detto: “E’ diventato fesso, e basta”…. col gusto… non si discute…. Ma un giudizio sul “positivo etico” è un’altra cosa e si discute….. Mi viene un sospetto. Che tu sia sentimentalmente così legato all’alta borghesia da seccarti quando senti dir cacca sul suo conto, e volontaristicamente così legato al mondo del lavoro da esigere da un libro il generico astratto ottimismo di tipo militante. In questo caso, è evidente che non possiamo intenderci.”

E ancora Pavese qualche giorno dopo risponderà a Monti in modo ‘più affettuoso’:

“Legami sentimentali e ottimismo militante valevano come ritorsione polemica contro il tuo scatto. Non accettando, come non accetto, la tua accusa di odiare tutti, dovevo pure tener conto che di maltrattati nel mio libro non ci sono che certuni, e questi certuni sono quei signori…Ci siamo spiegati? se tu ritiri il dannunziano, io ritiro il sentimentale e il militante, e mi auguro che tuo nipote Carlo sia altrettanto trattabile. Ciao, sta’ bene e ricorda che Einaudi paga con dolore.”

Pavese allude al fatto che Augusto Monti doveva ricevere i diritti d’autore per il libro Tradimento e fedeltà, Einaudi, Torino 1949, nuova edizione del trittico La storia di papà (I Sansôssí, Quel Quarantotto, L’iniqua mercede).

L’altro giudizio critico è di Italo Calvino. Nel dopoguerra Pavese divenne amico di Italo Calvino (nato nel 1923), che andò stabilmente a lavorare all’Einaudi, Calvino più volte ha manifestato il rammarico di non essersi accorto della crisi esistenziale di Pavese che lo condurrà al suicidio e negli anni successivi per ammirazione o almeno per riconoscenza si spese per valorizzare le opere di Pavese: da più parti si disse che fu Pavese a proporre la pubblicazione del primo libro di Calvino ‘Il sentiero dei nidi di ragno’ che riscosse subito successo. La casa editrice Einaudi nel dopoguerra diventò un punto di riferimento per la cultura italiana, allora non solo non c’era ancora internet ma neanche la televisione. Dopo la morte di Pavese, Calvino curò la pubblicazione del diario di Pavese ‘Il mestiere di vivere’, la pubblicazione di poesie e tradusse lui stesso le poesie in inglese dedicate a Costance Dowling e con Lorenzo Mondo recuperò le ‘lettere’ di Pavese.

Tuttavia anche Calvino diede un giudizio ben poco mite sul romanzo Tra donne sole di cui lesse il manoscritto. Il giudizio negativo si focalizzò soprattutto sul personaggio di Clelia, che secondo lui altri non è che Pavese, “con parrucca e seni finiti” e scrive a Pavese:

“Tra donne sole è un romanzo che ho subito deciso che non mi sarebbe piaciuto. Sono ancora di tale opinione, sebbene l’abbia letto con grande interesse e divertimento. Ho deciso che è un viaggio di Gulliver, un viaggio tra le donne, o meglio tra strani esseri tra la donna e il cavallo; è una specie di viaggio nel paese degli Hauihnhnn, i cavalli di Swift, cavalli con impreviste somiglianze umane, orribilmente schifosi come tutti i popoli incontrati da Gulliver. È un certo modo nuovo di vedere le donne, e di trarne vendetta allegra o triste. E la cosa che scombussola di più è quella donna-cavallo pelosa, con la voce cavernosa e l’alito che sa di pipa, che parla in prima persona e fin da principio si capisce che sei tu con la parrucca e i seni finti che dici: ‘Ecco, una donna sul serio dovrebbe esser così” (Ferrero 1998: V).

La cosa però che più non lo convince è la rappresentazione dei borghesi, che «sono visti e parlano in modo ovvio e giornalistico». Insomma gli rimprovera di non conoscere a fondo questo mondo e di non aver chiara la propria posizione rispetto ad esso.

Calvino prosegue mettendo in risalto la mascolinità e volgarità del linguaggio usato, identificando come «regina delle donne-cavallo» Momina e affermando che il lesbismo cui si accenna nel testo (tra Momina e Rosetta) non è credibile, fa pensare piuttosto a Pasife che a Saffo, essendo il centro del racconto labirinticamente celato in un segreto morboso; rileva che il mondo rappresentato è visto dal di dentro, da «chi fa i vestiti alle donne-cavallo» e che il vero messaggio del libro è un approfondimento del tuo insegnamento di solitudine, con in più qualcosa di nuovo sul senso del lavoro, sul sistema lavoro – solitudine, sul fatto che i rapporti tra esseri umani non fondati sul lavoro diventano mostruosi, sulla scoperta dei nuovi rapporti che nascono dal lavoro (ed è la parte più bella, Clelia e Becuccio, questa donna che trova la sua regola di vita come scapola, e prende gli uomini come noi si prende le ragazze.

Pavese risponde qualche giorno dopo:

Torino, 29 luglio 1949

Caro Calvino,

non mi dispiace che Tra donne sole non ti piaccia. Le ragioni che ne dài sono la trascrizione fiabesca di un tema letterario; un abbozzo di novella di Italo Calvino. Cavallinità e peni di faggio sono pura e bella invenzione (tutte le mitologie s’incontrano: il faggio è l’albero del Monte Pelion, il monte dei centauri).

Applichi due schemi, come due occhiali, al libro e ne cavi impressioni discordanti che non ti curi di comporre. C’è la definizione di Talino e Momima come fratelli, la scoperta che faccio sempre un viaggio all’altro mondo, che per me bestiale e decadente s’identificano […]; poi applichi lo schema realistico evocatorio (Proust, Radiguet, Fitzgerald) dell’insussistenza di questo mondo scoperto. Evidentemente questo mondo è un’esperienza dei vari io […] e questi io sono la vera serietà (non fiaba) del racconto. Ma tu — scoiattolo della penna — calcifichi l’organismo scomponendolo in fiaba e in tranche de vie. Vergogna.

Mi ha comunque molto consolato la scoperta del filone unitario tra le varie opere.

Godo dei successi cannibalici.

Figúrati se vengo a San Remo. Fossi matto.

Pavese

 

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