Il calcio giocato e quello tifato. La politica ai tempi di Sky e delle curve

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Alfredo Morganti

di Alfredo Morganti – 7 febbraio 2018

Il calcio non è la politica, e mal sopporto le metafore calcistiche applicate alla polis. Negli ultimi anni, con Renzi e Berlusconi, queste metafore si sono moltiplicate e sono state sdoganate senza freni: la discesa in campo, il tifo, le magliette bagnate, la squadra, le tre o quattro punte, la regia, il gioco d’attacco, e via discorrendo. Pur tuttavia ammetto che la politica ha qualcosa del calcio, qualcosa che autorizza le metafore di cui sopra. Ma riguarda il calcio giocato, piuttosto che quello tifato. Il campo più che gli spalti. Ossia, l’agonismo, lo scontro intellettuale e qualche volta fisico, il senso di appartenenza, l’identità, la fedeltà di una vita che solo il trasformismo riesce a tradire, il sudore, la fatica, il fiato che manca, il corpo che entra in gioco nella sua interezza (corpo fisico ma anche intellettuale) e che si sottopone alla dura disciplina degli schemi e delle strategie, persino delle gerarchie. La politica mette in gioco, esibisce la propria forza, la misura, ti impone di rispondere alle insidie e ti fa sentire anche la durezza della terra, quando si cade e magari si fatica a rimettersi in piedi.

Per questo ho letto con molto gusto le allegorie di Fausto Anderlini e Giulio Cherchi, tutte giocate sulla figura del tifoso di calcio, probabilmente l’una in risposta all’altra. Parlare (e polemizzare) sotto metafora, dico per inciso, è un’arte bella e difficile. Mi è piaciuta molto l’allegoria di Fausto: io e lui siamo due vecchi comunisti italiani, e sappiamo per esperienza che cosa significa resistere, unirsi, fare massa e spezzare il pane, appunto, nei momenti di massima difficoltà, restando magari infastiditi da chi ti vede attaccare il manifesto e non regge nemmeno il secchio della colla, anzi ne critica persino l’impasto o lo stile della pennellata. Capisco anche quella di Giulio, tutta giocata sul termine ‘ultras’ e sul danno di intendere la politica come ‘tifo’. Capisco meno il finale del suo post. C’è un salto logico troppo forte tra la critica del tifo ultras applicato alla politica (condivisibile) e l’invocazione quasi retorica, in astratta alternativa, del percorso di formazione politica offerto da un partito. Sembra un finale appiccicato a forza, con una certa rabbia polemica. Come se la stizza di Fausto per quelli che sull’orlo dell’abisso quasi lo invocano come una sorta di liberazione, volesse anche significare ‘acconciamoci a fare gli ultras e punto’. Ossia: zitti e pedalare.

Se non è chiara l’allegoria calcistica di Fausto, il suo richiamo alla lotta, alla fedeltà e alla resistenza, è perché oggi i partiti non esistono più. I partiti storici, i partiti comunità, e non parlo solo del PCI. Lì la resistenza quotidiana (ancor più dei centri studi e delle scuole di formazione dove i giovani dirigenti crescevano e prosperavano) era il vero tratto distintivo. Lì si spezzava il pane soprattutto se (e quando) il pane mancava, soprattutto se (e quando) qualcuno tentava di sottrartelo, e spesso avveniva nei quartieri dove i fascisti facevano saltare le serrande delle sezioni e ti aspettavano sotto casa, oppure quando era l’eroina a portarsi via i compagni più giovani. Eccole le ferite, gli abissi, con cui il PCI e le altre comunità politiche facevano i conti nei decenni trascorsi, in cui talvolta si perdevano ma molto più spesso facevano fronte. C’era molta prassi, c’era l’agire, c’era il lavoro quotidiano nel modo di fare politica di altri decenni, c’era una presenza fisica, un corpo a corpo sociale ancor prima che politico, almeno nelle mie borgate. Poca teoria (se la intendiamo come seminario sui grandi temi) e molta robustezza fisica e mentale alle prese con territori impervi, tutti da conquistare palmo a palmo anche nei momenti più espansivi. Non sarebbe mai esistita QUELLA classe dirigente, così nobile, così colta, così rispettabile se non vi fossero stati quelli che menavano le mani laggiù in basso. Nessun tema epocale senza il nostro terra terra. Senza quella ostinata resistenza da ultras, anche per chi il compromesso storico proprio non lo capiva, ma ciò non costituiva un problema.

Oggi non è così. Oggi siamo un fortino assediato. Il partito non c’è e la resistenza è d’obbligo, perché è a partire dalla resistenza attuale che si costruiscono le basi future (di certo non in altri modi, perché l’avversario non ti regala nulla, meno che mai ti concede di rifiatare). Quel manipolo di ultras che resistono sugli spalti sono un pezzo nobile del nuovo possibile mosaico, la guardia repubblicana direi. Chi ha in mente, invece, un disegno ancora lontanissimo dall’attuale realtà, che non vi corrisponde affatto per sua stessa ammissione, non solo non resiste, ma nemmeno ne sente la necessità, e scambia tutto per ‘tifo’, tempo perso, minimalismo da curva, che è ancora più grave. E la cosa peggiore è che, pur predicando la necessità sin d’ora di una squadra che insegni a giocare a tutti i potenziali giocatori, si comporta proprio come gli ultras ma al contrario: alla fine tifa contro. Oppure si sgola a segnalare l’assenza di uno stadio che sia più bello del campetto attuale. Come se tutti noi questo non lo sapessimo, non conoscessimo il nostro tempo della miseria, e come se non auspicassimo un futuro diverso. Come se giocare a calcio all’Olimpico non fosse meglio che farlo allo Stadio Flaminio pericolante. L’assenza di un partito lo si vede anche da queste discussioni. Dal fatto che si vive dentro un’idea, senza praticarne la realtà. Uscire dall’idea e resistere in vista di una realtà migliore, progettando comunque una prospettiva praticabile e realistica, è invece la cosa più importante da fare, almeno a mio parere. È il modo di essere militanti in assenza di partito, di fare militanza nel vuoto di organizzazione. Militanza bassa, certo, quella che nel tempo non ricorda nessuno. Quello che insegna anche il calcio quando si gioca con un uomo in meno, sei a rischio retrocessione e devi difendere ostinatamente, caparbiamente il risultato fino al triplice fischio. La nostra storia inizia con la resistenza, d’altronde.

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