Fonte: Il Fatto Quotidiano
Francesco “disturbava” perché amato dai poveri
“Perché sei venuto a disturbarci?”. La Curia romana e una parte cospicua dell’alta gerarchia della Chiesa cattolica ha, in fondo al cuore e a fior di labbra, incessantemente rivolto a Francesco questa domanda. Per non parlare dei potenti della Terra, convenuti al suo funerale più per essere sicuri che non tornasse, che non per onorarlo.
“Perché sei venuto a disturbarci?”: è la prima domanda che il Grande Inquisitore rivolge a Cristo tornato nel mondo, nel finale travolgente dei Fratelli Karamazov di Dostoevskij. Si racconta che uno dei cardinali di Curia più esposti nelle ultime onoranze a Francesco fosse solito esclamare, passando con i suoi ospiti sotto un ritratto di Giovanni Paolo II: “Questo sì che era un papa!”. Francesco no, non corrispondeva a quella idea di papa. Perché con lui si è definitivamente compiuta l’autospoliazione del papato iniziata con Giovanni XXIII e quindi proseguita, tra accelerazioni (quella effimera di papa Luciani, per esempio) e arresti (appunto quello del papa polacco): con Francesco sparisce il sovrano pontefice, torna il vescovo di Roma, il pastore. Ciò che Francesco rigetta è il potere. È il ‘peccato’ che il cardinale Grande Inquisitore di Dostoevskij rimprovera a Cristo, non aver voluto il potere temporale che Satana pure gli aveva offerto, nelle tentazioni: “Tu avevi rifiutato con sdegno quell’ultimo dono ch’egli ti offriva, mostrandoti tutti i regni della terra: noi accettammo da lui Roma e la spada di Cesare, e ci proclamammo re della terra, gli unici re”. Ecco, con Francesco si dimostra che quella lunghissima storia può finire, e che non per questo finisce la Chiesa. L’amore travolgente per questo papa, l’amore degli ultimi, dei diversi, dei poveri è quello che fa più paura a coloro che sono legati a una Chiesa la cui sopravvivenza sia fondata sul potere e sul controllo, e non sull’amore e sulla libertà. “Noi daremo agli uomini la tranquilla, umile felicità degli esseri deboli… e a noi si stringeranno, nella paura, come i pulcini alla chioccia”, dice il cardinale inquisitore. Con Francesco, no: “Se una persona è gay, cerca il Signore e ha buona volontà, chi sono io per giudicare?”. Lo disse in aereo, ai giornalisti, nel 2013, e alla Curia parve (come infinite altre volte) una voce dal sen fuggita, inopportuna. Invece l’ha poi ripetuto infinite volte, per esempio nella meditazione mattutina del 17 marzo 2014: “Chi sono io per giudicare gli altri? È la domanda da fare a se stessi per dare spazio alla misericordia, l’atteggiamento giusto per costruire la pace tra le persone, le nazioni e dentro di noi”. Il papa parlava la lingua del Vangelo: quella del Cristo, non quella del Grande Inquisitore. Lo faceva parlando della morale privata e di quella pubblica, con i piccoli e con i potenti. La sua politica, la sua unica politica, era il Vangelo. Consapevole di essere un agnello in mezzo ai lupi, Francesco era semplice come le colombe, ma anche prudente come i serpenti (cfr. Matteo 10, 16): sapeva che esisteva la Segreteria di Stato, e usava ogni canale possibile per influenzare il potere. Ma era nel mondo senza essere ‘del’ mondo, ed è qui la sua profonda diversità dalla Curia, che da secoli del mondo è un centro, e un centro di potere. Jorge Mario Bergoglio non era un ingenuo: da gesuita, e da arcivescovo di Buenos Aires, sapeva perfettamente cosa è il potere, e come averci a che fare. Ma Francesco è stato diverso da Jorge: il cambio di nome (e che nome: quello del santo più remoto da ogni idea di potere, quello che più di ogni altro si è umiliato come Cristo) e l’assunzione al ministero petrino hanno cambiato profondamente chi lo ha assunto: Francesco è stato davvero un “dolce Cristo in terra” (così Caterina da Siena chiamava il pontefice).
Francesco non ha rotto solo con la tradizione millenaria del sovrano pontefice, ma ha anche infranto un altro dogma non scritto: è stato il primo papa non occidentale, non europeo, non interno ai confini dell’impero, non impregnato di pensiero coloniale. Un papa venuto “dalla fine del mondo”, come disse affacciandosi dalla Loggia delle benedizioni, e che sarebbe voluto andare dove il mondo finisce: a Gaza. Il papa che, negli ultimi istanti di vita, ha ricordato all’Europa, e a tutti gli ipocriti capi di Stato e di governo che pochi giorni dopo sarebbero accorsi al suo funerale, che “non c’è nessuna vera pace senza disarmo”. Il papa che ha rimandato a casa il vicepresidente Vance (incarnazione del modo di essere cattolici senza essere cristiani) con tre ovetti Kinder. Con tutti i suoi limiti, e le sue umane contraddizioni, Francesco – l’autore di manifesti profetici come la Laudato si’ e la Fratelli tutti, il papa che diceva ai ragazzi di “fare chiasso” per salvare il pianeta – ci manca da morire. Lo Spirito soffia dove vuole: preghiamo perché anche il prossimo papa sia inviso ai grandi inquisitori.