Il popolo buono e quello da educare. La contraddizione fondamentale della politica odierna

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Alfredo Morganti

di Alfredo Morganti – 27 gennaio 2019

L’occasione è un’intervista di Gennaro Maria Barbuto a ‘Repubblica’ sul tema delle élite. Barbuto è uno studioso, un docente universitario che, a un certo punto, dice: “La sinistra avrebbe dovuto mostrarsi più sensibile alle istanze del popolo”. Traduco così: avrebbe dovuto ascoltare il popolo, qualunque cosa esso sia, fare attenzione alle sue espressioni. Il mood è quello della sinistra sorda e cieca. Aggiunge Barbuto che “da tempo la nostra classe dirigente non è espressione delle istanze che vengono dal basso. È autoreferenziale”. Sintetizzo: la sinistra è poco sensibile, la classe dirigente non risponde alle petizioni del popolo. Chiaro. Poi però prosegue e cita Leopardi, dicendo che in Italia manca una ‘società stretta’, una élite, che “sappia educare a valori etici e civili un popolo al quale rimane invece indifferente ed estranea”. Il docente cita quindi anche Machiavelli e spiega come lui si riferisse “a grandi principi che cercassero di formare grandi popoli”. Qui c’è uno scarto. Dal mancato ascolto siamo passati alla mancata educazione e formazione. Ascoltare o formare insomma? Un salto notevole, quasi un ribaltamento di prospettiva.

Mi chiedo dunque: il ‘popolo’ è buono di per sé, per natura e dapprincipio, e dunque va ascoltato esprimendone fedelmente le istanze, oppure deve essere ‘educato’, ‘formato’, insomma da natura deve farsi cultura (e dunque politica)? E quindi, la società è immediatamente un soggetto politico oppure deve essere anch’essa formata, costruita, in qualche modo realizzata come tale? Eccolo il dilemma, che nell’intervista al professor Barbuto si manifesta in tutta la sua chiarezza ed evidenza. Una contraddizione palese, allo stato nudo, che viene presentata senza battere ciglio, in un’intervista che appare invece smaccatamente enfatica e assertiva.

Che fare professore? Dobbiamo pendere dalle labbra del popolo o educarlo? Assumerlo in sé oppure ‘formarlo’? Non mi meraviglio che su questa contraddizione cadano pure i professori, essa è il bivio dinanzi al quale ci si deve soffermare a pensare. Va da sé che un populista sposa senz’altro il primo corno del dilemma, per un populista il popolo è buono, va assecondato, e di esso si deve essere portavoce. Quindi niente istituzioni rappresentative né mediazioni. Per un non populista invece, per chi crede che la politica conservi comunque un primato, un carattere attivo, una capacità di leggere i processi e lavorare alla ‘formazione’ sociale, il popolo è invece un costrutto, va formato, va tolto dal cratere magmatico delle sue pulsioni e fatto diventare un soggetto democratico rappresentato nei partiti e nelle istituzioni, al quale si appella la Costituzione e a cui quest’ultima impone i suoi limiti.

Le élite, come si può vedere, svolgono un ruolo importante soprattutto nel secondo caso, quando si tratta di lavorare alla formazione e al primato della politica. Perché, a essere sinceri, per un populista le élite sono sempre traditrici e privilegiate, sostanzialmente inutili, tanto il popolo parla per sé e si rivolge direttamente al Capo. Ecco come la vocazione leaderistica della politica prima o poi diventa populismo, di destra o di sinistra poco cambia. Prima o poi, quella vocazione salta tutte le mediazioni e si rivolge da qualche balcone direttamente al popolo e alla sua purezza immediata, mostrando di pendere dalle sue labbra (anche se questo avviene solo strumentalmente). Parlare direttamente al popolo è come gettare nel subbuglio la rappresentanza istituzionale, i partiti, i corpi intermedi, e tutti quelle associazioni o figure che lavorano alla mediazione culturale, politica, sociale, e contribuiscono a dare ordine alla società senza precludere necessariamente un cambiamento, anzi. Tutto ciò ammettendo una certa evidenza tra chi sia élite e chi, invece, sia ‘popolo’.

Prima ancora, tuttavia, il problema vero sono le classi, i ceti e le figure sociale reali, di cui si perde traccia a furia di ricorrere a concetti general-generici (spesso solo mediatici) come quello di popolo, appunto. L’effetto (voluto, ideologico) è quello di un allisciamento generale, dove scompaiono le differenze e il dettaglio sociale, e tutto appare in forma semplificata, ‘narrativa’ e ‘comunicativa’. Persino un po’ rozza. Un involucro populista che nasconde un desolante vuoto interno, che stende un velo sui conflitti e sulle contraddizioni in seno al popolo. In questo senso populismo, leaderismo e media si abbinano, perseguono l’interesse comune di semplificare tutto a vantaggio della conservazione dell’esistente. E della politica mostrano appieno la crisi fondamentale. È evidente che la sinistra deve ripartire dall’opposto, se non vuole scomparire come tale, anche nell’idea che ne resta.

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